Ep. 4 / La balena di Taranto

“A te vengo, balena che tutto distruggi ma non vinci: fino all’ultimo lotto con te; dal cuore dell’inferno ti trafiggo; in nome dell’odio, vomito a te l’ultimo mio respiro”.

A pronunciare queste parole è il capitano Achab, protagonista del celebre romanzo “Moby Dick” di Herman Melville del 1851. Chissà, magari qualcuno degli oltre 270 marinai che parteciparono, circa 20 anni dopo, alla cattura della balena di Taranto provò le stesse emozioni descritte da Achab. Sì avete sentito bene. Perché questa è la storia della balena di Taranto.

Benvenuti a tutti, sono Stefano Frau e questo è In cerca di Storie, il podcast che va alla ricerca di storie o personaggi dimenticati o poco conosciuti.

L’episodio di quest’oggi nasce un po’ per caso. Stavo rileggendo alcuni articoli scritti anni fa per il mio blog e mi sono imbattuto nella vicenda della balena di Taranto. Ricordo che quando la scoprii rimasi stupito. Pur essendo pugliese non avevo mai sentito questa storia. Così ho pensato: perché non farci un podcast? Ecco allora, la storia della balena di Taranto.

Dobbiamo portare indietro l’orologio a molti anni fa. Tornare nell’allora Regno d’Italia. Era la mattina del 9 febbraio del 1877 quando un esemplare di balena franca boreale entrò per sua sfortuna nel Golfo di Taranto.

Il cetaceo fu dapprima scambiato per una nave capovolta. Era immobile e si confondeva tra gli scogli. Solo in seguito alcuni marinai si accorsero che si trattava di altro. Non accadeva spesso di vedere una balena nel Mediterraneo. Anzi, per via del loro habitat naturale, era impossibile avvistare un esemplare di questa specie nel Mediterraneo. Sono più diffuse nella fascia settentrionale dell’oceano Atlantico e Pacifico.

Agli occhi dei marinai appariva come un mostro marino che andava catturato e ucciso a tutti i costi. Fu così che una flotta di trenta barche iniziò a pedinare la balena che intanto si dirigeva verso la città.

Nel frattempo la voce della presenza della balena si diffuse rapidamente in città. Increduli e curiosi si riversarono sul molo per poter assistere a quell’evento. Per chi aveva visto le balene solo sui libri era un evento imperdibile. Forse, proprio il libro di Melville, spinse molte persone a vedere con i propri occhi quell’animale sconosciuto.

Fu così che alcuni tarantini si trasformarono in tanti Achab provando in tutti i modi a fermare la balena. Chi a colpi di fucile, chi di rivoltella, i più temerari con delle fiocine. Qualcuno perfino con dei candelotti di dinamite. Vi risparmio i dettagli macabri, ma come potete ben immaginare, dopo molte ore, i marinai ebbero la meglio sulla povera creatura.

La presenza della balena attirò migliaia di curiosi che si riversarono a Taranto dalle città limitrofe. La carcassa dell’animale fu esposta per un periodo di tempo ai visitatori incuriositi che pagavano per vederla. Dalla carcassa furono estratti 3521 chili di “olio di pesce”. Fu sezionata e lo scheletro e gli organi interni furono acquistati dall’Università di Napoli su ordine del professore di Anatomia Comparata Paolo Panceri. Nel 1950 lo scheletro fu trasferito nel Museo Zoologico di Napoli.

Lo scheletro della balena di Taranto è un reperto di notevole importanza storica e scientifica, essendo l’unico esemplare del Mediterraneo di questa specie conservato in un museo.

Sull’accaduto è possibile leggere una testimonianza dell’epoca. Fu scritta dal professore di Zoologia e Anatomia Comparata Francesco Gasco. Un resoconto dettagliato che ci dà un’idea chiara di quali fossero le convinzioni del tempo circa le balene. Il cetaceo giunto a Taranto fu considerato fin da subito un mostro marino, una minaccia per la città, e per questo in molti fecero a gara per mostrare il proprio coraggio e la propria determinazione nell’ucciderlo. Si trattava di un trofeo da mostrare a tutti. In fondo siamo nel 1877 e non possiamo aspettarci una grande sensibilità ambientale. Difendere l’ecosistema e tutelare le specie che ci vivono non era ancora una questione prioritaria. In pochi sapevano che questi animali sono pacifici.

L’ignoranza è la madre di tutte le paure scrive Melville sempre in Moby Dick. L’ignoranza è stata (ed è) spesso sinonimo di crudeltà e violenza. Ricordare episodi come quello della balena di Taranto vuol dire imparare dal passato e non commettere gli stessi errori.

Siamo giunti al termine di quest’episodio, vi ringrazio per l’ascolto. E’ stato un episodio bonus, come avete sentito più breve degli altri. Se volete altri episodi come questo fatemelo sapere nei commenti.

Vi lascio in descrizione il link dove poter leggere il racconto sulla balena di Taranto. Se vi è piaciuto il podcast, vi invito a condividerlo, a lasciare un commento o una recensione. Iscrivetevi al canale per non perdere i nuovi episodi. In cerca di storie è sulle maggiori piattaforme di podcast nonché su Instagram e Twitter. Inoltre, sul sito incercadistorie.com trovate le trascrizioni di tutti gli episodi. Vi ringrazio per l’attenzione e vi do appuntamento al prossimo episodio. Ciao!

Sfoglia il racconto sulla balena di Taranto citato nel podcast

Ep. 3 / Vera Menchik: la regina degli scacchi

Immaginate di assistere ad un torneo di scacchi. Un torneo maschile per l’esattezza. C’è un partita che sta volgendo al termine ed uno dei giocatori prova a stento a nascondere la sua rabbia. Sa bene di non poter vincere. Quelle due parole che non vorrebbe sentire, risuonano nella sua testa: scacco matto. Quella partita, lunga e tesa, è finita. Il suo sfidante può festeggiare. Un sorriso per allentare la tensione e godersi la vittoria. Che c’è di strano? C’è di strano che lo sfidante, il vincitore, è in realtà una ragazza. Ma non una qualunque. Una ragazza prodigio che sbaraglia i suoi avversari. No, non è finzione. Perché questa è la vera storia di Vera Menchik, la regina degli scacchi.

Benvenuti a tutti, sono Stefano Frau e questo è In cerca di Storie, il podcast che va alla ricerca di storie o personaggi dimenticati o poco conosciuti.

Come detto, lo scopo di questo podcast è raccontare, e riportare alla memoria, personaggi che hanno fatto la storia e per qualche strano motivo sono finiti nel dimenticatoio. Il personaggio di quest’oggi, purtroppo, ha subito lo stesso destino.

Negli ultimi tempi, grazie soprattutto alla serie di Netflix “La regina degli scacchi”, è cresciuto l’interesse attorno a questo gioco. La serie, ispirata al romanzo del 1983 di Walter Tevis, racconta la storia di Beth Harmon, un’orfana del Kentucky, diventata un prodigio degli scacchi negli anni ’50 e ’60. Beth si mette in mostra in un mondo tipicamente dominato dagli uomini.

Questa però è solo finzione. O almeno fino a un certo punto. Perché se scaviamo nel passato e andiamo alla ricerca di personaggi simili, scopriamo che è esistita davvero una regina degli scacchi. Non si chiamava Beth e non veniva dal Kentucky. Il suo nome era Vera Menchik e veniva dalla Russia. Ed ora vi racconterò la sua storia.

Vera Menchik nasce il 16 febbraio 1906 a Mosca in una famiglia multiculturale diremmo: padre boemo e madre inglese. Se nella serie Beth vive un’infanzia difficile, per Vera non si può dire lo stesso. La sua famiglia non aveva problemi economici. Anzi. Suo padre lavorava come manager di proprietà per famiglie benestanti; sua madre come governante. La famiglia possedeva anche un mulino e i soldi certo non mancavano visto che Vera frequentò una scuola privata per ragazze.

La Storia, quella con la s maiuscola, entra prepotente nella vita di Vera e della sua famiglia stravolgendo tutto. Nel 1917 la Russia è nel caos. Un Paese già stremato dal primo conflitto mondiale si ritrova ora coinvolto nella rivoluzione d’ottobre. Un evento che non cambierà solo la storia della Russia e di Vera, ma avrà conseguenza in tutto il mondo.

Per Vera però la rivoluzione sancisce la fine della sua vita agiata. Gli espropri forzati portano la famiglia a perdere i propri beni. Addio mulino e scuola privata. Ora i Menchik sono costretti a condividere la casa con altre persone e Vera si ritrova a frequentare una scuola pubblica dove mancano luce, elettricità e riscaldamento. E’ proprio in questi anni difficili, quando Vera ha appena 9 anni, che si avvicina al mondo degli scacchi. E’ suo padre ad insegnarle le regole del gioco. La piccola Vera partecipa anche ad un torneo scolastico.

La nostra lente si sposta ora in Inghilterra. Siamo nell’autunno del 1921 e la famiglia Menchik decide di lasciare la Russia. I suoi genitori si separano: suo padre torna nell’allora repubblica Cecoslovacca, mentre la madre con le due figlie, Vera e Olga, si trasferiscono in Inghilterra a St. Leonards-on-Sea, una piccola città che fa parte di Hastings. Lì viveva la nonna di Vera.

L’Inghilterra dei primi anni Venti appare come un mondo incantato agli occhi di Vera. Dopo le privazioni e gli stenti della Russia rivoluzionaria, la vita in Inghilterra sembra una favola. La stessa Vera è stupita, ad esempio, che sia possibile lasciare fuori dalla porta le bottiglie per il latte. In Russia, dice, tutti le avrebbero rubate.

In questo mondo incantato, c’è un piccolo dettaglio che potrebbe sfuggire: la lingua. Vera, infatti, non parla inglese. Ha 15 anni e conosce solo il russo. Il mondo, spesso, lo potremmo dividere in due categorie: chi dinanzi ad un problema vede un ostacolo e si ferma, e chi invece vede un’opportunità. Inutile dire che Vera appartiene alla seconda categoria. E’ proprio questo problema ad avvicinarla al mondo degli scacchi.

“Spesso mi è stato chiesto cosa mi ha fatto pensare seriamente agli scacchi – racconta Vera – Sembra che l’atmosfera di silenzio e fumo pesante non sia appropriata per una giovane donna. Questo è vero. In altre circostanze non mi sarebbe mai venuto in mente di passare del tempo in questo modo, ma gli scacchi sono un gioco tranquillo e quindi il miglior hobby per una persona che non può parlare correttamente la lingua”.

Il problema che diventa opportunità. Così Vera, seguendo alcune lezioni private, impara sempre di più sul gioco degli scacchi perfezionando la sua tecnica. Nel 1924 si unisce all’Hastings Chess Club. Il suo primo allenatore è un giocatore locale, John Drewitt, che le insegna l’apertura di gioco chiuso. In seguito si affida all’illustre maestro ungherese Géza Maróczy, che all’epoca era residente locale e membro dell’Hastings Chess Club. Secondo i giornali locali, Vera gioca circa 20 partite contro il maestro che inevitabilmente influenza le sue mosse. Il suo talento non tarda a venire fuori e Vera si mette in luce prima nei tornei locali, poi a livello regionale e infine internazionale.

La consacrazione avviene nel 1927. A Londra, contemporaneamente alla prima edizione delle Olimpiadi degli scacchi, si tiene anche il primo torneo mondiale femminile. La formula è un unico girone all’italiana a turno unico tra dodici giocatrici. Vera, che per l’occasione rappresenta l’Unione Sovietica, si classifica al primo posto laureandosi prima campionessa mondiale.

Negli anni successivi difende il titolo in altre sette occasioni. In 12 anni, fino al Campionato vinto a Buenos Aires nel 1939, su 99 partite giocate ai Campionati del mondo femminile perde solo 3 volte. Non c’è storia. E’ una fuoriclasse. Amburgo, Praga, Amsterdam, Varsavia, Stoccolma, non importa dove si tiene il torneo. Vera vince e sbaraglia le avversarie. La tedesca Sonja Graf è l’unica che prova ad impensierirla ma anche lei deve cedere al talento della russa che la batte per ben due volte.

Vincere contro le donne è troppo facile. Vera allora decide di cimentarsi nei tornei maschili. All’età di 23 anni, nel 1929, partecipa al torneo di Carlsbad (oggi Karlovy Vary), in Boemia. Per gli addetti ai lavori si tratta del “torneo di scacchi più importante dalla fine della prima guerra mondiale”. L’accoglienza riservatale non è delle migliori. Alcuni giocatori non accettano l’idea di confrontarsi con una donna. Tra questi, lo scacchista austriaco Albert Becker non perde l’occasione per sbeffeggiarla. Suggerisce di formare un club che prende il nome da Vera Menchik. Coloro che perderanno una partita contro di lei diventeranno membri a pieno titolo del club. Ironia della sorte, proprio Becker sarà il primo membro di questo club. Per Vera il torneo si dimostra un’ottima vetrina per mettersi in mostra. Non vince la competizione ma nemmeno chiude a 0 punti. E per una donna ad un torneo maschile con giocatori del calibro di José Raúl Capablanca e Max Euwe rappresenta più di un successo.

Nello stesso anno partecipa al torneo maschile di Barcellona vincendo l’ultimo degli otto premi in palio. La prima volta che una donna ha vinto un premio in un torneo di livello master. Due anni dopo, nel gennaio del 1931, nel torneo di Natale di Hastings Vera non arriva prima ma si toglie la soddisfazione di battere l’olandese Max Euwe che alla fine vincerà quel torneo. Nel 1935 a cadere contro la Menchik è Samuel Reshevsky. Becker, Euwe, Reshevsky, il “club della Menchik”, come era stato definito dallo stesso Becker, si arricchisce di nomi.  

Occorre fare una precisazione riguardo i risultati ottenuti dalla Menchik nei tornei maschili. E’ vero, nei tornei di primo livello, ha sofferto spesso con i super campioni, a fatica riusciva a posizionarsi nella metà superiore della classifica finale, ma questo non vuol dire che non abbia raggiunto traguardi impensabili per l’epoca. Ricordiamo che siamo negli anni tra la Prima e la Seconda guerra mondiale e siamo in un mondo, come quello degli scacchi, patriarcale e elitario, dove la Menchik è riuscita nell’impresa non solo di battere alcuni colleghi maschi considerati campioni assoluti, ma anche di scardinare alcuni di quei pregiudizi che relegavano le donne ad un livello inferiore. Essere la prima donna a sfidare gli uomini va ben al di là del mero risultato sportivo. Ha fatto da apripista ad altre donne nel mondo degli scacchi ad alto livello. Solo per citarne una, pensiamo all’ungherese Judit Polgár considerata da molti la miglior giocatrice nella storia degli scacchi. Per intenderci, una ragazza che all’età di 15 anni divenne la più giovane grande maestro di sempre.

Se nel mondo femminile la Menchik non aveva rivali, in quello maschile se la giocava alla pari. Avviciniamo ancora di più la nostra lente e analizziamo le condizioni in cui giocava la Menchik.

Era costantemente sotto pressione. Per quell’epoca, una donna che sedeva al tavolo degli uomini e li sfidava a viso aperto, vincendo a volte, era considerata uno scandalo. Derisa e sottovalutata, doveva spesso dimostrare di essere all’altezza della sfida. Il sessismo imperante, pensiamo ad esempio al “Vera Menchik Club”, non aiutava la campionessa.

A questo si aggiungeva un altro problema. Nonostante i grandi successi ottenuti nel mondo femminile e maschile, la Menchik si ritrovava sempre in una situazione di “straniera in casa”. La Gran Bretagna non la accettò mai completamente perché non era nata lì. Non parlava ceco nonostante rappresentasse quel paese nei tornei, e non era russa, nonostante parlasse la lingua fin dalla nascita. Se cerchiamo il suo nome negli archivi dei tornei e delle partite, notiamo che accanto al suo nome non c’è mai lo stesso Paese o la stessa bandiera. E’ stata sempre considerata un’outsider. Nonostante vivesse in Inghilterra, fu considerata una straniera fino alla fine degli anni ’30, dunque non idonea per le competizioni nazionali. I giornali britannici, all’indomani della vittoria del suo primo titolo mondiale, la definirono “rifugiata russa”. Mettiamoci nei suoi panni e immaginiamo le difficoltà nel vincere e convincere i suoi colleghi maschi.

Solo nel 1937 diviene finalmente cittadina britannica dopo aver sposato lo scacchista Rufus Stevenson. Un matrimonio, però, che non dura molto a causa della morte prematura del marito avvenuta nel 1943.

Proprio negli anni ’40, la Storia, quella con la s maiuscola, ritorna nella vita di Vera. Il 27 giugno 1944, in piena seconda guerra mondiale, è previsto un incontro al quale parteciperà Vera. Ha vinto le prime tre partite e si appresta a disputare la semifinale. In realtà non prenderà mai parte a quella partita perché il 26 giugno 1944 una bomba tedesca V-1 colpirà la casa londinese dove viveva insieme alla sorella e alla madre, uccidendoli all’istante. Aveva 38 anni.

Non fu l’unica campionessa di scacchi a morire durante o subito dopo la guerra. Alexander Alekhine o lo stesso Capablanca che sfidò la Menchik morirono in quegli anni. Nonostante i necrologi e gli articoli sulla stampa all’indomani della sua morte, il nome di Vera Menchik cadde nell’oblio.

Una donna che ha fatto la storia e di sicuro è stata una delle più grandi giocatrici di scacchi della prima metà del XX secolo non può essere dimenticata così. Parliamo pur sempre della campionessa mondiale di scacchi femminile più longeva della storia, avendo detenuto il titolo per 17 anni. Eppure, dobbiamo attendere il 1957 per leggere la prima grande biografia a lei dedicata. A scriverla, e non sembra un caso, un’altra giocatrice: Elisaveta Bykova. Per circa 60 anni è stata l’unica biografia disponibile su Vera Menchik. Solo nel 2016 uscirono altre due diverse biografie, questa volta in inglese e in ceco.

Perché questo trattamento? Impossibile dare una risposta secca, di sicuro il clima difficile nel quale giocava la Menchik e i pregiudizi del tempo, non aiutarono a preservare la sua memoria. Morì da campionessa in carica. Per fortuna su internet si possono ancora trovare alcune sue foto. C’è n’è una emblematica. Fu scattata a Londra nel 1931 all’Empire Social Chess Club. Ritrae Vera Menchik all’opera. La campionessa è in piedi al centro della stanza. Con una mano mantiene la sua borsa, con l’altra muove una pedina. Che c’è di strano? Che la vediamo sfidare 20 avversari contemporaneamente. Uomini e donne.

Nonostante i suoi trofei fossero svaniti con lei in quel bombardamento qualcosa è rimasto. Non solo il ricordo di una delle migliori giocatrici di scacchi, ma anche un premio. Infatti ad oggi la nazione vincitrice delle Olimpiadi femminili di scacchi si aggiudica la Vera Menchik Cup, un modo per ricordare proprio la prima campionessa del mondo.

Siamo giunti al termine di questo episodio, vi ringrazio per l’ascolto. Come vi ho raccontato, sulla figura di Vera Menchik non ci sono molti libri. Oltre alle biografie già citate, vi lascio in descrizione gli articoli  che ho letto ed utilizzato per quest’episodio. La mia ricerca, infatti, è partita da alcuni articoli letti sul Washington Post e su chess.com. Se vi è piaciuta questa storia, vi invito a condividere il podcast, a lasciare un commento o una recensione. Iscrivetevi al canale per non perdere i nuovi episodi. In cerca di storie è sulle maggiori piattaforme di podcast nonché su Instagram e Twitter. Inoltre, sul sito incercadistorie.com trovate le trascrizioni di tutti gli episodi. Vi ringrazio per l’attenzione e vi do appuntamento al prossimo episodio. Ciao!

Articoli e libri citati nel podcast

– “The forgotten female chess star who beat men 90 years before ‘Queen’s Gambit’” di Michael S. Rosenwald – Washington Post

– “Meet the ‘real-life Beth Harmon’ Vera Menchik, who predates Netflix’s ‘The Queen’s Gambit’ character by a few decades” di Joey Hadden – insider.com

– “Vera Menchik: The Real-life Beth Harmon” – chess.com

– “Vera Menchik: A Biography of the First Women’s World Chess Champion, with 350 Games” di Robert B. Tanner. McFarland Publishing

“La giungla” di Sinclair: i retroscena dello scandalo del manzo imbalsamato

Ho mirato al cuore del pubblico, e per caso l’ho colpito allo stomaco. Mi sono reso conto con amarezza che ero stato trasformato in una celebrità, non perché il pubblico si prendesse cura dei lavoratori, ma semplicemente perché il pubblico non voleva mangiare più carne tubercolare.

Upton Sinclair

Nel 1906 esce “La giungla” di Upton Sinclair, il libro-denuncia che racconta le tremende condizioni dei lavoratori impiegati nelle aziende di produzione e inscatolamento della carne di Chicago. Leggendo il libro di Sinclair mi sono imbattuto nella storia dello scandalo del “manzo imbalsamato”. Quella vicenda appena accennata dall’autore mi ha spinto a saperne di più su questo scandalo che sconvolse la società americana alla fine del XIX secolo. Nell’episodio di In cerca di storie, con l’ausilio del libro di Sinclair, ricostruiamo questa vicenda.

Ep. 2 / Lo scandalo del “manzo imbalsamato”

Ci sono tanti modi per morire in guerra: per mano del nemico; per fame; intemperie; malattie. Oppure per mano amica: pensiamo ai disertori passati per le armi. Nella storia di quest’oggi, la morte assunse una forma singolare. Arrivò infatti sotto forma di carne in scatola. O almeno così credettero in molti. Perché questa, è la storia dell’embalmed beef scandal: lo scandalo del manzo imbalsamato.

Benvenuti a tutti, sono Stefano Frau e questo è In cerca di Storie, il podcast che va alla ricerca di storie o personaggi dimenticati o poco conosciuti.

La storia che vi racconto quest’oggi è una di quelle nascoste tra le righe della narrazione di un libro. Qualche tempo fa, leggevo il libro di Upton Sinclair dal titolo “La giungla” nel quale si racconta l’esperienza in America, precisamente a Chicago, di Jurgis Rudku, un lituano emigrato con la sua famiglia negli States in cerca di fortuna alla fine del 1800. Jurgis, attratto dal sogno americano, si ritrova dopo non molto tempo a vivere un vero e proprio incubo. Assunto a Packingtown, il quartiere di Chicago soprannominato “la città dello scatolame” per via dei macelli e delle industrie di lavorazione della carne lì presenti, assiste con i suoi occhi agli orrori di quel mondo. 

No, non voglio farvi alcuno spoiler se non avete letto il libro di Sinclair, ma la storia di Jurgis ci serve per capire meglio cos’è questo scandalo della carne imbalsamata.

Cerchiamo di localizzare la nostra storia. Magari con l’ausilio di qualche foto. Siamo in America, lo abbiamo detto, alla fine del XIX secolo, e più precisamente siamo a Chicago, e se volessimo restringere l’area ancora di più, siamo a Packingtown. Se cerchiamo su Google questo nome, saltano fuori diverse foto che danno l’idea della vastità di quest’area. Distese infinite di animali chiusi nei recinti. Fabbriche e fumo nero. I mattatoi di Chicago, costruiti nel 1865, coprivano originariamente una superficie di 1,5 chilometri quadrati che raddoppiò nel giro di trent’anni. I 2300 recinti per animali potevano ospitare, in una sola volta, qualcosa come 118mila capi di bestiame, tra suini, bovini e ovini. Nel 1870, i mattatoi trattavano, se così si può dire, circa due milioni di animali l’anno, arrivando alla cifra monstre per quel tempo di 9 milioni nel 1890.

Qui, tra reparti di macellazione, inscatolamento, trasformazione, refrigerazione e spedizione, lavoravano agli inizi del 1900 circa 25mila persone, tra donne, uomini e bambini. Una città nella città, perché attorno alle fabbriche sorgevano uffici, taverne, alberghi e abitazioni.

Un’organizzazione del lavoro matematica quanto maniacale, che vide il battesimo della catena di montaggio e fu d’ispirazione per il magnate delle automobili Henry Ford.

Il lavoro, proprio quello che ha attratto Jurgis e la sua famiglia. Ecco, va detto, e forse non vi meraviglierete nel sapere che il mondo lavorativo racchiuso all’interno del perimetro di Packingtown, seppur organizzato, si rivelava un inferno per i lavoratori stessi. Le condizioni di lavoro erano orribili: ritmi febbrili, orari sfiancanti, incidenti mortali o invalidanti malattie cosiddette professionali come la tubercolosi, spesso diffuse tra i lavoratori delle stanze di cottura, oppure la setticemia, sempre dietro l’angolo ogni volta che qualche operaio si tagliava durante la macellazione. Aggiungete la piaga delle paghe in calo e gli abusi e soprusi che spettavano alle donne, costrette spesso ad essere sottopagate e a prostituirsi.

Il quadro è completo direte voi. Invece no, perché mancano ancora due fattori da menzionare. I più importanti direi, perché si tratta proprio degli animali e della loro carne. Sinclair per scrivere il suo libro-inchiesta, lavorò per sei mesi a Packingtown. Quello che vede Jurgis in realtà è proprio ciò che vide l’autore durante questo lavoro sotto copertura.

Le aree adibite alla macellazione erano spesso carenti dal punto di vista igienico. I lavoratori non avevano modo di potersi lavare, nonostante passassero ore ricoperti dal sangue. Nonostante l’esistenza di controlli sugli animali prima e dopo la macellazione, spesso, come raccontato da Sinclair, si macellavano animali affetti da tubercolosi o suini morti a causa della peste suina. Se non addirittura animali considerati illegali, come i cavalli. Nelle aree di lavorazione, i topi la facevano da padroni. Capitava che qualche topo cadesse nell’impianto di lavorazione, ma questo non comportava alcun problema per la macchina di produzione di Packingtown. La carne, infatti, era spesso di scarsa qualità. Diversi prodotti, come ad esempio il “prosciutto in scatola” o il “pollo in terrina”, non avevano nulla o quasi di carne animale. Ho specificato di carne animale, perché secondo il racconto di Sinclair, qualche volta a cadere nell’impianto di lavorazione non erano solo i topi ma anche gli operai stessi. Ad eccezione delle ossa, ogni singola parte del loro corpo era stata inscatolata e spedita ai quattro angoli del mondo. A completare il quadro, gli additivi chimici che permettevano di svecchiare la carne, rimuovere tracce di muffa e perfino dare un sapore.

E’ proprio dopo una descrizione minuziosa di come si uccidevano e macellavano animali infetti, che Sinclair cita la famosa “carne in scatola” che aveva ucciso, a suo dire, tanti soldati americani quanti ne avevano uccisi le pallottole spagnole nella “splendida guerricciola”.

Cos’è questa “splendida guerricciola” e cosa c’entra la carne in scatola? Per scoprirlo, dobbiamo spostare la nostra lente su un avvenimento storico: la guerra ispano-americana e il suo scandalo della carne imbalsamata.

Non vi racconterò la guerra, ma ci basta sapere alcune cose per contestualizzare la nostra storia. Siamo nell’aprile del 1898, da una parte ci sono gli Stati Uniti d’America che stanno dando il La al loro imperialismo; dall’altra la Spagna, in crisi, che deve fronteggiare movimenti indipendentisti in alcune delle sue colonie. Proprio in una di queste, Cuba, ci sono alcuni guerriglieri che rifiutano la sovranità spagnola. L’America decide così di appoggiare l’isola contro la Spagna. La guerra, caldeggiata dai giornali dell’epoca, scoppia in seguito all’esplosione della nave Maine, che costa la vita a 266 marinai.

Le truppe americane, per lo più composte da volontari, si ritrovano ad essere dislocate in zone alquanto remote. A Cuba, ma anche Porto Rico, Guam e nelle Filippine.

Per fare la guerra ci vogliono armi certo, ma soprattutto cibo per le truppe. E quale miglior cibo se non la carne in scatola?

La decisione di distribuire carne in scatola ai soldati, risale già alla Guerra Civile. Durante la Guerra di secessione, però, non faceva parte delle razioni standard distribuite alle truppe: si preferiva dar loro del manzo fresco. Proprio le lunghe distanze e l’impossibilità di rifornire le truppe con della carne fresca, spinse il governo a optare per il manzo in scatola durante la guerra con la Spagna. In media, durante la guerra ispano-americana, un soldato riceveva 12 once di bacon, maiale o manzo in scatola.

Ecco allora che ci ricolleghiamo a quanto descritto da Sinclair nel suo libro. Proprio quella carne di scarsa qualità, prodotta e confezionata a Chicago e distribuita in tutta l’America, si ritrova ora sulle tavole dei soldati americani.

Durante la guerra con la Spagna, tra i soldati circola spesso quell’espressione: “carne imbalsamata”. Il poeta americano Carl Sandburg, che partecipò come volontario alla guerra, ci spiega il perché di quel nome: “L’odore di putrefazione che emanava ricordava quello dei corpi imbalsamati”. Il manzo in scatola aveva anche il nome “Red Horse” e spesso i soldati lo gettavano in acqua, sperando che almeno i pesci potessero mangiarlo.

Nel luglio 1898 iniziarono a circolare le prime voci sulle condizioni malsane degli accampamenti militari americani e sulla pessima qualità della carne distribuita ai soldati. Negli accampamenti, il tifo e le scarse condizioni igieniche, erano la norma.

Il presidente di allora, William McKinley,  il 24 settembre 1898 diede inizio ad una investigazione per fare luce su quelle voci. La commissione costituita per l’occasione e capitanata dal generale Dodge lavorò tra il settembre e il dicembre di quell’anno raccogliendo le testimonianze di soldati, ex commilitoni e civili.

Lo scandalo scoppiò quando il 21 dicembre il generale maggiore Nelson Miles testimoniò dinanzi alla commissione riunita a Washington asserendo che 337 tonnellate di manzo surgelato, o manzo imbalsamato, furono distribuite ai soldati di stanza a Porto Rico.

Miles sosteneva di non saper nulla delle sostanze chimiche utilizzate durante il processo di lavorazione poiché si trattava di un processo segreto. Secondo il generale, carne di manzo di bassa qualità era stata distribuita in Florida, Porto Rico e Cuba. Non disse la sua fonte, ma sostenne di avere avuto conferma da parte di un medico che le sostanze chimiche utilizzate fossero la causa delle malattie che colpivano i soldati.

Lo scandalo si allargò quando saltò fuori una lettera del maggiore Daly che sosteneva di aver eseguito personalmente alcune ispezioni a Tampa, Jacksonville e Porto Rico, e di aver visto con i suoi occhi manzo fresco conservato con l’ausilio di additivi chimici nonché, sulla banchina di Tampa, di aver visto un quarto di bue appeso al sole ancora in ottimo stato nonostante fosse lì già da 60 ore. Impossibile a suo dire, data la temperatura e il clima. Per Daly si trattava sicuramente di un esperimento e credeva che avessero utilizzato acido borico per trattare la carne. Infatti, la carne che aveva assaggiato emanava un odore simile alla carne imbalsamata e dopo la cottura aveva un retrogusto di acido borico. Daly non effettuò test chimici sulla carne, analizzò solo del brodo di conservazione trovando tracce di acido borico e salicilico.

Le voci non si fermavano e il governo, preoccupato, decise di creare una nuova commissione: questa volta capeggiata dal generale maggiore James Wade e nota come “Wade Beef Board”. Dal 20 febbraio al 24 aprile 1899 produsse circa 4700 pagine di studi, ma non aggiunse molto a quello che già si sapeva dai risultati della commissione Dodge.

Durante l’inchiesta, però, saltò fuori un altro nome: Alexander Powell. Si trattava di un commerciante di carne di New York che riforniva battelli, hotel e ristoranti. Allo scoppio della guerra, Powell scrisse al presidente americano sostenendo di avere l’esperienza adatta per rifornire le truppe con la carne necessaria. In quanto rifornitore della Florida, diceva di poter spedire carne fresca nelle zone più calde. In certe zone, a causa delle alte temperature, senza frigoriferi adatti, la carne non poteva durare a lungo, ma lui conosceva un processo in grado di preservare la qualità della carne dai 4 ai 10 giorni.

Avrebbe applicato questo suo processo segreto alla carne acquistata dal governo e diretta alle truppe in Florida e a Cuba. Il presidente passò la lettera al dipartimento della guerra che declinò l’invito: niente carne trattata ai soldati. Powell asseriva di non utilizzare acido borico o salicilico. Le carcasse da lui trattate, si conservavano per oltre 75 ore. Daly disse di aver mangiato la carne e sofferto di nausea. Ma disse, anche, di non essere in grado di poter collegare la nausea alla qualità della carne o alla giornata difficile e afosa passata a cavallo.

Secondo quanto ricostruito dall’inchiesta però, tale processo segreto di Powell non fu utilizzato per la carne destinata ai soldati.

Emersero altri dettaglio. Ad esempio, la Swift and Company, che aveva firmato il contratto con il governo per rifornire l’esercito, avrebbe dovuto costruire anche dei depositi refrigerati a Cuba per stipare le provviste di carne. Questi depositi entrarono in funzione però molto tardi. Sulla nave Panama, la stessa dove il maggiore Daly vide la carne di manzo, il ghiaccio era insufficiente, di conseguenza la carne arrivò avariata e fu gettata in mare. I carri merce, inoltre, adibiti al trasporto della carne di manzo, secondo la testimonianza del colonnello Sharpe, non furono precedentemente puliti. Erano infestati dai vermi dello sterco e della spazzatura lì trasportati.

Nonostante queste carenze sul piano igienico, la corte concluse che la carne di manzo venduta all’esercito era tutto sommato in ottimo stato, l’unica negligenza si riscontrò nell’organizzazione della sua consegna e nella conservazione prima della consumazione.

Il Generale Miles precisò che il termine “imbalsamato” fosse legato alla carne congelata e non a quella in scatola, sebbene la stampa utilizzò questo termine per tutti i tipi di carne di manzo forniti all’esercito. Sta di fatto che molti soldati si rifiutavano di mangiarla, asserendo che il manzo in scatola fosse “gommoso, stopposo, sgradevole e nauseante alle volte”. La scarsa qualità della carne era accompagnata dalla mancanza di condimenti e verdure: insomma, un pasto immangiabile in tutto e per tutto.

Considerata come cibo da viaggio, era di solito accompagnata da pomodoro in scatola, gallette e caffè. Di solito era distribuita fredda insieme alle gallette e ai pomodori. Per la commissione Wade il manzo in scatola sarebbe stato anche un piatto accettabile se solo fosse stato accompagnato da verdure e patate. Tuttavia considerò l’acquisto un errore.

Harvey Wiley , un chimico del Dipartimento dell’Agricoltura, fu ingaggiato per investigare sulla qualità della carne. Wiley era un convinto oppositore dei conservanti. Analizzò la carne in scatola fornita ai soldati e quella che si trovava comunemente nei mercati, ma non trovò alcun additivo chimico se non semplicemente del sale usato come condimento. Wiley aveva condotto dei test su alcuni volontari (chiamati per l’occasione “poison squad”), notando come alcuni conservanti, come ad esempio l’acido borico, fossero la causa di mal di testa e costipazione. Campioni di carne dagli accampamenti della Florida, Cuba e Porto Rico, South Carolina, Georgia e Alabama furono spediti a Washington per i test clinici. Anche qui nessun additivo chimico riscontrato. Wiley notò solo che il manzo in scatola aveva un contenuto proteico più alto rispetto alla carne fresca e che questa presentava un contenuto di grassi maggiore.

Secondo Wiley, sia la carne fresca che quella in scatola appena aperta, a causa delle alte temperature, si deteriorava molto velocemente creando le ptomaine, scoperte dal chimico italiano Francesco Selmi alla metà del XIX secolo e ritenute responsabili delle intossicazioni alimentari. Erano proprio queste, secondo Wiley, a creare nausee e malanni. La dieta dei soldati, molto povera, aggravava solo la situazione.

Né la Dodge, né la Wade, riuscirono a produrre prove convincenti che la carne fosse stata realmente trattata chimicamente e che questa fosse la causa di morte e malattie tra i soldati. Le accuse di Miles furono considerate infondate: perché seppur vero che alcuni soldati si intossicarono a causa di carne contaminata e avariata, non si dimostrò alcun collegamento con gli additivi chimici.

La maggior causa di morte tra i soldati fu il tifo che si diffondeva velocemente tra le truppe a causa del cibo e delle bevande contaminate. Spesso l’acqua distribuita ai soldati non veniva bollita. La vicinanza delle latrine alle sorgenti d’acqua, faceva sì che i soldati si infettassero. Singolare il caso della 52^ fanteria dell’Iowa, che registrò 37 morti nell’accampamento di cui 36 per tifo.

Si calcola che nel 1898, la febbre tifoidea infettò il 90% dei reggimenti entro le otto settimane dall’arrivo. Su quasi 108 mila soldati, circa 20 mila contrassero il tifo e ben 1580 morirono. Numeri approssimativi perché si pensa che alcuni soldati morirono anche a causa della Salmonella, che fu però scoperta solo nel 1880.

La guerra con la Spagna era stata definita “splendida guerricciola” per via proprio del basso numero di caduti. In realtà, il dato singolare è che morirono più soldati a causa delle malattie. Si stima che durante gli scontri a Porto Rico e a Cuba morirono 280 uomini sul campo di battaglia e 2630 per altre cause. Secondo studi più approfonditi, dal maggio 1898 all’aprile 1899, ben 5348 uomini morirono di malattie e solo, si fa per dire, 968 per ferite o incidenti.

Nonostante gli studi sul tifo, la credenza che il manzo imbalsamato fosse la maggior causa di morte restò molto diffusa, come abbiamo visto anche dal racconto di Sinclair.

Sì, ancora una volta il racconto di Sinclair torna prepotente nella nostra storia. Perché “la giungla” insieme allo scandalo della carne imbalsamata stravolsero la società americana.

I dettagli emersi durante le inchieste spinsero la classe politica ad agire. In molti si resero conto che mancava un adeguato programma di controllo ed ispezioni. Nonostante dal 1891 il Dipartimento dell’Agricoltura effettuasse controlli sugli animali prima e dopo la macellazione, non si preoccupava però di controllare la carne anche successivamente. La carne avariata ritrovata nell’accampamento di Jacksonville, ad esempio, aveva superato proprio uno di questi controlli. Questo significa che durante i controlli al mattatoio, l’animale non presentava malattie e la sua carne non era stata danneggiata.

La credenza che il manzo imbalsamato fosse la maggior causa di morte tra i soldati durò anche per un altro motivo. Molti americani, infatti, erano dubbiosi circa la carne trattata con i conservanti. All’inizio preferivano la carne fresca, poi, a causa del minor prezzo, optarono per quella surgelata o in scatola mantenendo però alcune perplessità.

Già prima della guerra con la Spagna questi dubbi spinsero il governo nel dicembre del 1897 a presentare un disegno di legge per proibire il commercio, tra gli stati, di cibo adulterato con additivi chimici. Nel marzo del 1898, il primo congresso nazionale del Pure Food, che si occupava della qualità del cibo, si riunì a Washington.

In questo clima di paura e sconcerto arrivò nel 1906 la pubblicazione de “La giungla” di Sinclair, prima a puntate per un giornale e poi in un libro, e come detto sconvolse l’opinione pubblica. Jack London lo definì “la capanna dello zio Tom della schiavitù salariale”: un libro in grado di fare la storia. Se Sinclair però puntava a mettere in risalto le condizioni difficili dei lavoratori, i lettori furono colpiti invece da quanto letto circa la produzione della carne. Lo stesso Sinclair affermerà sul Cosmopolitan: “Ho mirato al cuore del pubblico, e per caso l’ho colpito allo stomaco. Mi sono reso conto con amarezza che ero stato trasformato in una celebrità, non perché il pubblico si prendesse cura dei lavoratori, ma semplicemente perché il pubblico non voleva mangiare più carne tubercolare”.

Come c’era da aspettarselo, lo scandalo della guerra e il libro influirono sul mercato della produzione di carne.  

Fu allora, che questi eventi fecero da preludio al “Pure Food and Drug Act” del 1906. L’allora presidente Theodore Roosevelt, che aveva combattuto durante la guerra ispano-americana e che mangiò la carne incriminata, spinse il Congresso ad agire e nel 1906 il “Pure Food and Drug Act” e il “Meat Inspection Act” divennero legge. Si trattava del primo di una serie di leggi sulla protezione dei consumatori che puntava a vietare il traffico straniero e interstatale di prodotti alimentari e farmaci adulterati, o etichettati, in modo errato. Portò alla creazione della Food and Drug Administration cambiando per sempre il modo in cui l’America affrontava il suo cibo.

Nonostante fossero ormai passati circa vent’anni dalla fine della guerra con la Spagna e dai dettagli emersi dalle commissioni d’inchiesta, la credenza attorno alla carne imbalsamata restò ancora forte. Ne è la prova il progetto di legge avanzato nel marzo del 1917 dall’italoamericano Fiorello La Guardia di New York. Il futuro sindaco della “Grande Mela” chiedeva il carcere in tempo di pace, o la condanna a morte in tempo di guerra, per tutti coloro che avessero fornito cibo o materiali di scarsa qualità all’esercito. Non sorprende scoprire che suo padre, Achille La Guardia, combatté durante la guerra con la Spagna e la sua morte, avvenuta anni dopo la guerra, si credette fu dovuta proprio al manzo in scatola mangiato a Tampa in Florida nel 1898.

Siamo giunti al termine di questo episodio, vi ringrazio per l’ascolto. Se volete saperne di più su questa vicenda vi consiglio di leggere sicuramente “La giungla” di Upton Sinclair. Inoltre, sul sito del New York Times, per gli iscritti, è possibile leggere gli articoli pubblicati all’indomani dello scoppio dello scandalo. Sul sito di “Jstor” trovate l’articolo, in inglese, scritto da Edward Keuchel che ho utilizzato per questo episodio e che vi lascio come sempre in descrizione. Se vi è piaciuta questa storia, vi invito a condividere il podcast, a lasciare un commento o una recensione. Iscrivetevi al canale per non perdere i nuovi episodi. Vi ricordo che “In cerca di storie” è anche su Instagram e Twitter. Vi ringrazio per l’attenzione e vi do appuntamento al prossimo episodio. Ciao!

Libri e articoli citati in questo episodio

  • “La giungla” di Upton Sinclair. PGRECO EDIZIONI
  • KEUCHEL, E. (1974). CHEMICALS AND MEAT: THE EMBALMED BEEF SCANDAL OF THE SPANISH-AMERICAN WAR. Bulletin of the History of Medicine, 48(2), 249-264. Retrieved January 3, 2021, from http://www.jstor.org/stable/44447546

Dieci giorni in manicomio: dal reportage di Nellie Bly

“Prendete alcune donne perfettamente sane e in salute, rinchiudetele in una stanza, dove saranno costrette a rimanere sedute dalle 6 del mattino alla 8 del pomeriggio, senza mai potersi muovere, né parlare, alimentatele con cibo scarso e avariato e costringetele a sottoporsi a bagni gelidi e terapie estremamente dure, senza mai dar loro notizie di ciò che accade nel resto del mondo e vedrete come, ben presto, le condurrete alla follia. Due mesi sono sufficienti a provocare in chiunque un vero e proprio esaurimento fisico e mentale”.

Dieci giorni in manicomio – Nellie Bly

Il 9 ottobre 1887 esce la prima puntata dell’inchiesta, sotto copertura, di Nellie Bly sul manicomio di Blackwell’s Island. Ascolta il podcast per ripercorrere la storia di Nellie Bly e dell’inchiesta che l’ha consacrata nel mondo del giornalismo.

In cerca di storie è disponibile su Spreaker, Apple Podcast, YouTube, Castbox, Deezer e Spotify.

Ep. 1 / La storia di Nellie Bly

Ci sono persone che rifiutano di seguire la massa. Persone che non amano adattarsi e non accettano i ruoli prestabiliti dalla società. La protagonista della storia di quest’oggi è una donna che ha fatto dell’indipendenza e della libertà il suo marchio di fabbrica. Perché questa è la storia di Nellie Bly, the free American girl.

Benvenuti a tutti, sono Stefano Frau e questo è In cerca di Storie, il podcast che va alla ricerca di storie o personaggi dimenticati o poco conosciuti.

La protagonista di quest’oggi l’ho scoperta per caso. Durante un corso di aggiornamento per giornalisti, mi sono imbattuto nel suo nome: Nellie Bly. Ammetto che non conoscevo la sua storia e, libro dopo libro, ricerca dopo ricerca, sono rimasto letteralmente affascinato dalla sua figura tanto da dedicarle questo episodio.

Prima ancora di ricercare la sua storia, ho deciso di cercare una sua foto. Volevo associare un volto a quel nome. Digitando su Google, la prima foto che viene fuori è in bianco e nero e ritrae una giovane donna. Non guarda in camera, ha i capelli raccolti con un fermaglio e indossa quello che sembrerebbe un tipico vestito dell’età vittoriana. La foto però potrebbe ingannare. Perché vista così sembra una qualunque ragazza di fine ottocento. Invece, leggendo la sua storia, Nellie Bly era fuori dal comune. Ed ora, vi racconterò perché.

Il vero nome di Nellie Bly è Elizabeth Jane Cochran e nasce nella contea di Armstrong, oggi Pittsburgh in Pennsylvania, il 5 maggio 1864, un anno prima della fine della guerra di secessione americana. Della sua infanzia e adolescenza, ci interessano due eventi. Il primo, è il decesso del tanto amato padre, avvenuto quando Elizabeth aveva 6 anni; il secondo, il rapporto difficile con il suo patrigno, un uomo violento e fuori di testa. Due eventi negativi che segneranno la sua vita e il suo rapporto con gli uomini. Perché Elizabeth decide fin da subito una cosa: non dipenderà mai da un uomo.

La morte del padre, infatti, significa la fine della sua infanzia felice e spensierata. Il signor Cochran, al momento della sua morte, non lascia alcun testamento. Il giudice della contea è costretto a vendere i beni di famiglia e dividerne il ricavato tra gli eredi, per assicurare ad ognuno di loro una fetta di eredità. Non vi ho detto una cosa però: il signor Cochran ebbe dieci figli, da due matrimoni diversi. La divisione del patrimonio ebbe conseguenze negative sull’economia della famiglia.

E’ in questo momento difficile, dove la famiglia è costretta a sbarcare il lunario, che emerge la personalità di Elizabeth. Siamo nell’America di fine ottocento, e per una donna di umili condizioni non è facile trovare lavoro. Spesso, le alternative sono due: o l’inferno delle fabbriche, o sposare un uomo. Elizabeth però è convinta delle sue idee e non farà mai come le sue coetanee. Detesta l’idea di doversi sposare per sopravvivere. Al lavoro in fabbrica neanche ci pensa. Ci sarebbero altri lavori, come la segretaria o l’insegnante, ma non riesce nel suo intento. Ecco, allora, quasi per caso, che il primo vero lavoro è quello che non avrebbe mai immaginato: la giornalista.

Grazie alla sua passione per la lettura, in particolar modo per il quotidiano locale “Pittsburgh Dispatch”, che si ritrova catapultata in questo mondo. Elizabeth ama le tematiche sociali ed è un’attenta lettrice degli articoli di Elizabeth Wilkinson Wade, in arte Bessie Bramble, l’unica giornalista donna del “Dispatch”. E’ affascinata dalla sua figura. La Bramble è una donna atipica per quei tempi. Invece di accettare una comoda vita da casalinga con il banchiere Isaac Wade, decide di lavorare: prima insegnante, poi preside, infine gli articoli sul “Dispatch”.

L’approdo al giornale avviene dopo una lettera inviata in risposta ad un articolo dal titolo “La sfera delle donne”.  Nell’articolo, l’opinionista del giornale, senza tanti giri di parole, afferma che l’unica sfera delle donne sia quella domestica. Elizabeth si sente chiamata in causa, perché il tema la riguarda da vicino. In gioco c’è la dignità delle donne, troppo spesso escluse dalla vita sociale e lavorativa. La sua lettera, firmata “Lonely Orphan Girl”, finisce sul tavolo dell’opinionista che la gira al suo direttore. Lo stile, l’arguzia, la capacità di colpire nel segno: entrambi si accorgono che dietro quella lettera si nasconde un talento. E’ proprio il direttore del “Dispatch” ad ingaggiarla e ad assegnarle quel nome con cui noi oggi la conosciamo: Nellie Bly, un nome pulito ed accattivante, preso in prestito dall’omonima canzone di Stephen Foster, cantautore locale di Pittsburgh.

 Il 25 gennaio 1885 esce sul “Dispatch” il suo primo articolo dal titolo Il rompicapo delle ragazze. Al centro, le ragazze dimenticate ed escluse dalla società: povere, discriminate, costrette a vivere in case fatiscenti e svolgere lavori sottopagati ai limiti dell’impossibile. L’esperienza di Nellie Bly al “Dispatch” è un continuo successo. Il suo obbiettivo è chiaro: lei non deve compiacere nessuno. Il suo giornalismo ha il compito di raccontare, smuovere le coscienze e, se possibile, migliorare le condizioni di vita dei protagonisti dei suoi articoli. Si occupa spesso di tematiche sociali e diviene la prima donna a lavorare come giornalista sotto copertura. Il pubblico ama leggere i suoi pezzi e l’aumento delle vendite conferma l’ottimo lavoro svolto dalla Bly. Non tutti però l’amano. I suoi articoli, spesso, creano non pochi malumori tra i finanziatori del giornale. Ricordiamo che Pittsburgh a quel tempo è steel-city, la città dell’acciaio, l’industria pesante la fa da padrona e i proprietari delle fabbriche non ammettono che sul giornale locale vengano messe in mostra tutte le storture di quel sistema malato chiamato progresso industriale. Eccola allora costretta ad un braccio di ferro con il direttore del “Dispatch” che spesso è costretto a relegarla alle pagine di Costume e società.

A Nellie Bly il “Dispatch” sta stretto e decide di cambiare aria spostandosi in una città dove le opportunità non mancano: New York. La Grande Mela rappresenta una meta ambita. New York è una città in espansione, un grande palcoscenico dove mettersi in mostra. Anche i giornali locali sono in fermento. C’è grande competizione, i lettori hanno sete di notizie. Proprio a New York, nel 1883, c’è un ungherese che vuole fare le cose in grande. Rileva un giornale sull’orlo del fallimento, il New York World, e decide di imprimere subito la sua impronta: un giornale diretto, con inchieste, scoop e le tanto famigerate crociate, quelle che oggi definiremmo campagne mediatiche, create per focalizzare l’attenzione su un tema e spingere la comunità ad agire. Questo ungherese si chiama Joseph Pulitzer e farà la storia del giornalismo.

E’ proprio al giornale di Pulitzer che punta la Bly, ma i primi approcci non sortiscono gli effetti sperati. Il giornale, infatti, ha organizzato un viaggio in mongolfiera da St. Louis a New York e sta cercando due reporter per raccontarlo ai suoi lettori. Nellie si candida, ma il direttore di allora è irremovibile: grazie, ma non è un’impresa adatta ad una donna. Ci prova con giornali minori, ma il problema è sempre lo stesso: lei è una donna, il giornalismo è roba da uomini. Ecco allora che decide di dimostrare a tutti quanto vale e si presenta di persona al New York World. Ottiene finalmente la possibilità di lavorare per il giornale di Pulitzer, grazie soprattutto alle sue idee che convincono il direttore di allora. Tra le sue proposte, c’è quella che la renderà celebre nel mondo del giornalismo e non solo: il reportage dal manicomio femminile di Blackwell’s Island.

Blackwell’s Island, oggi conosciuta come Roosevelt Island in nome dell’ex presidente, ospitava dal 1839 un manicomio. La nomea di questa struttura non lasciava presagire nulla di buono. Charles Dickens, nel 1842, durante il suo tour americano, visitò la struttura e rimase sconvolto da quanto visto, tanto da dedicarvi un racconto dettagliato nel suo “American notes”.

Anche in questo caso, incuriosito, ho cercato su internet per avere un’idea della struttura. Ci sono alcune foto e disegni, ma non rendono l’idea dell’inferno che si celava tra le sue mura.

Ancora oggi possiamo leggere il resoconto di Nellie Bly. Per realizzare quest’episodio ed avere una idea di quale fu la sua esperienza nel manicomio, ho letto il libro “Dieci giorni in manicomio”, edito da Edizioni Clandestine. Un resoconto che permette al lettore di immergersi nell’atmosfera nella quale si trovò la Bly.

Da questo lavoro sotto copertura, emergono alcune caratteristiche che rendono Nellie Bly una reporter di assoluto livello: la sua capacità di mantenere il sangue freddo, la sua lucidità nei momenti più difficili e l’abilità innata nel calarsi nella parte. Sembra quasi di avere di fronte un’attrice, una donna camaleontica in grado di trasformarsi e adattarsi alle circostanze.

Per avere un’idea chiara, vorrei raccontarvi le due fasi che hanno segnato quest’avventura a Blackwell’s Island. La prima fase, è quella della preparazione all’internamento. Il progetto prevedeva che Nellie Bly passasse 10 giorni in manicomio. Il decimo giorno, un collega del New York World, l’avrebbe tirata fuori. Semplice a dirsi, perché Nellie, che per l’occasione assunse il nome di Nellie Brown, doveva dapprima convincere di essere realmente pazza e poi essere rinchiusa. In questa prima fase, leggendo il suo resoconto, possiamo apprezzare tutte le sue abilità da attrice. Nel pensionato di carità per donne lavoratrici dove ha chiesto ospitalità, mette in scena il suo repertorio: si mette in disparte, dice di avere paura delle altre ragazze perché sicuramente sono pazze o perfino assassine. Fissa un punto indefinito nello spazio, spalanca gli occhi e non sbatte mai le palpebre. La sua compagna di stanza è così terrorizzata da questa Nellie Brown che non vuole dormire con lei. Il ruolo di pazza svitata le riesce bene e Nellie convince la responsabile della struttura e le altre ragazze presenti che lei è davvero pazza e necessita l’internamento.

Non è così facile però. Perché se il primo step è stato superato, ora tocca superare gli interrogatori e i controlli medici. Portata via da due agenti ed accompagnata dalla responsabile del pensionato alla corte di Essex, mette in scena un’altra magistrale interpretazione: durante l’interrogatorio, decide di cambiare ancora una volta nome. Ora si chiama Nellie Moreno e viene da Cuba. Non ricorda quasi nulla della sua esistenza, solo che ha perso il suo bagaglio e non riesce a trovarlo. La scena è alquanto singolare ma convincente, anche se Nellie rischia di essere scoperta quando l’incaricato della corte decide di chiamare i giornalisti pensando così che, una volta pubblicato un suo ritratto sul giornale, qualcuno potesse riconoscerla e portarla via. Nellie viene spedita al Bellevue hospital. Qui, in uno stanzone freddo con indosso uno scialle mangiato dalle tarme, attende la visita che deciderà il suo internamento. Le domande dei dottori per scoprire se davvero è pazza sono alquanto singolari: vedi volti impressi sulle pareti? Senti delle voci? Hai un fidanzato o un marito? Una risposta negativa a tutte e tre le domande e la diagnosi è confermata: demenza, senza alcuna speranza.

Ora passiamo alla seconda fase, l’internamento vero e proprio e cosa vive Nellie Bly per dieci giorni tra quelle mura. Quando entra in manicomio, nel 1887, trova le stesse condizioni che sconvolsero Dickens.

Le condizioni igieniche sono pessime. Le ragazze subiscono ripetuti abusi e violenze da parte delle infermiere. Picchiate, insultate, alcune incatenate, prive di abiti adatti per difendersi dal freddo della struttura, costrette per ore a restare sedute ed in silenzio. Le povere internate, ben 1600 in tutta la struttura, scontano ogni giorno quella pena infernale. Il cibo scarseggia e quel poco offerto è spesso disgustoso ed ammuffito. Le infermiere o i dottori, che invece ricevono cibo di alta qualità, sbeffeggiano le pazienti. E’ Nellie a raccontarci tutto e dirci che spesso la maggior parte di quelle ragazze non sono affatto pazze. Alcune donne sono state rinchiuse lì solo per colpa di un padrone di casa, un medico incapace o un marito stanco. Alcune, solo perché straniere ed incapaci di comunicare. Nellie prova a ribellarsi e chiedere condizioni migliori a medici e infermieri. Le sue proteste però rimangono inascoltate.

I dieci giorni passano e finalmente, come concordato con il direttore del World, il 4 ottobre 1887, Nellie esce, pronta a mettere nero su bianco quanto visto in quell’inferno. La prima puntata dell’inchiesta esce il 9 ottobre. Il giornale va a ruba. Lo scandalo investe tutti. Dal pensionato per donne lavoratrici al manicomio. Il gran Giurì decide di vederci chiaro e dà il La a una serie di interrogatori ed ispezioni a sorpresa. Purtroppo però, come c’era da aspettarsi, infermieri e medici negano quanto scritto da Nellie. Anche durante le ispezioni, lo scenario che si mostra agli occhi degli ispettori è completamente diverso. Le internate non indossano più abiti sudici e sporchi. Il cibo non è ammuffito. Le infermiere non si dilettano a picchiare o rovesciare secchiate di acqua gelida sulle pazienti. Nonostante questo, l’opinione pubblica è sconvolta a tal punto che il governo decide di stanziare ben 1 milione di dollari per migliorare le condizioni di vita delle malate. Per Nellie è un successo. Il suo lavoro sotto copertura ha dato i suoi frutti: non solo i colleghi giornalisti la ammirano e rispettano, ma le condizioni di vita di quelle pazienti sono migliorate grazie alla sua inchiesta.

La nostra protagonista è una firma di punta del World. Per lei però non è abbastanza. Le inchieste sotto copertura sono il suo pezzo forte, ma la Bly è una donna che sogna l’avventura. Eccola allora proporre un’altra idea folle al suo direttore.

Per capire da dove nasce la sua idea, dobbiamo tornare indietro al 1873, quando Jules Verne pubblicò la sua opera più celebre: Il giro del mondo in 80 giorni. La storia del londinese Phileas Fogg e del suo cameriere francese Passepartout è un cult. Nellie decide di sfidare proprio il personaggio di Verne sullo stesso campo: il giro del mondo. Propone al World, nell’autunno del 1888, un viaggio del mondo da compiere in meno di 80 giorni. Non è la prima volta che Nellie si cimenta in un viaggio. Ai tempi del “Dispatch”, insieme a sua madre, viaggiò per il Messico, raccontando quel paese tanto vicino ma poco conosciuto ai lettori di Pittsburgh. Un viaggio, quello, che finì in modo rocambolesco con la Bly e sua madre costrette a fuggire dal Paese per via di alcune dichiarazioni sulla poca libertà di parola che vigeva in Messico.

In questo giro del mondo, la Bly vuole viaggiare sola. Prepara i bagagli, il passaporto, duecento sterline e qualche dollaro. La mattina del 14 novembre 1889 il piroscafo Augusta Victoria salpa da New York direzione Londra. E su quel piroscafo, spinta dalla voglia di sovvertire le regole e stupire, c’è Nellie Bly.

Nonostante il mal di mare e qualche preoccupazione, Nellie approda in Inghilterra. Da lì si sposta in treno per raggiungere la manica e in nave per arrivare in Francia. Alla stazione di Amiens l’aspettano il corrispondente da Parigi del World e una coppia di anziani signori: sono i coniugi Verne. Nellie ha la possibilità di conoscere l’inventore di quel personaggio che l’ha spinta in questa impresa.

Dopo aver conosciuto il creatore di Phileas Fogg, eccola approdare a Brindisi, Port Said, Suez, Colombo, Singapore, Hong Kong, Yokohama, San Francisco e finalmente New York. Il viaggio è una vera avventura e non mancano i colpi di scena. Deve subire la concorrenza del giornale Cosmopolitan che ha deciso di assegnare alla sua giornalista Elizabeth Bisland lo stesso compito: il giro del mondo, in direzione opposta però. Impiegando meno tempo di Nellie Bly. Una sfida però che Nellie riesce a vincere, anzi stravincere. Infatti, grazie al piroscafo Oceanic, all’avanguardia per quei tempi, riesce a raggiungere San Francisco il 21 gennaio del 1890. L’accoglienza è quella degna di una celebrità. Il pubblico l’acclama. I festeggiamenti e le celebrazioni non si fermano. Il suo arrivo a New York è trionfante: ha compiuto il giro del mondo in 72 giorni. Elizabeth Bisland approderà a New York solo cinque giorni dopo. Nellie è nella storia.

Giornalista, viaggiatrice, scrittrice. Tutto qui? Neanche per sogno. Leggere la storia di Nellie Bly, vuol dire scoprire la vita di una donna che non era mai sazia di quanto fatto, sempre pronta a sperimentare e stupire. E’ qui che si cala in un’altra parte: quella della manager aziendale.

In questo nuovo ruolo, Nellie ha cambiato nuovamente nome. Adesso tutti la conoscono come Mrs Seaman per via del matrimonio con il ricco industriale dell’acciaio Robert Seaman. Un matrimonio, va detto, che desta molto scalpore, soprattutto per la differenza di età fra i due: ben 40 anni. Lei, che tanto rifiutava l’idea di dipendere da un uomo, ora è la moglie di un milionario newyorchese. Critiche nemmeno tanto velate l’accusano di essere convolata a nozze per puro interesse economico. Tra i due il rapporto non è dei migliori: la differenza di età, lo spirito combattivo di Nellie, la gelosia del signor Seaman, rendono la convivenza alquanto difficile.

Appianate le divergenze coniugali, Nellie Bly vuole aiutare suo marito. Posata la penna da scrittrice, diviene nel 1899 la manager dell’Iron Clad Manufacturing e della consociata American Steel Barrel. In questo ruolo segna un primato. Donne a capo di una industria da 1500 dipendenti non ce ne sono. Per lei e per le donne del tempo, è un altro motivo d’orgoglio. Se ho deciso di raccontarvi anche questa fase della sua vita è soprattutto per la sua lungimiranza e le idee rivoluzionarie che applica al mondo della fabbrica. Decide di riorganizzare gli spazi e la produzione, investendo sul lato sociale. Si occupa del marketing, diversificando i prodotti dell’azienda: non solo lattine e contenitori in acciaio per il trasporto del latte, ma anche caldaie, scaldabagni, lavelli e serbatoi. Introduce lo stipendio fisso settimanale al posto del lavoro a cottimo. Nelle fabbriche, fa installare docce con tanto di asciugamani e saponi. Sale bowling, una biblioteca, tavoli da biliardo e un pianoforte. Non solo, un pronto soccorso per i dipendenti e un ristorante con tanto di chef giapponese per i dirigenti. Siamo solo agli inizi del Novecento, eppure sembra di leggere l’idea di organizzazione dello spazio lavorativo tipica di una azienda della Silicon Valley. Per fare un paragone italiano, ricorda un po’ le idee innovative introdotte da Adriano Olivetti in Italia, ispirato proprio da quanto visto negli Stati Uniti d’America. Su questo però, voglio dedicare un episodio a parte.

L’avventura di Nellie Bly come manager, non finisce bene. Per colpa di alcuni suoi collaboratori, che utilizzano i fondi dell’azienda per fini personali, l’Iron Clad si ritrova sull’orlo del fallimento. Banche, avvocati, giudici: tutti contro la Bly. Tra feste e yacht, un suo collaboratore, Edward Gilman, sottrasse un milione di dollari. I creditori la perseguitano. E’ singolare pensare come un uomo, ancora una volta, sia la causa dei suoi guai. Il tanto amato padre, l’odiato patrigno ed ora il fidato collaboratore.   

L’ultima fase della vita di Nellie Bly racchiude un’altra avventura, non meno importante delle altre finora raccontate. Nellie torna a scrivere, questa volta per il “Journal” di Hearst, e non abbandona il suo ruolo di manager. Proprio a causa del dissesto finanziario della sua azienda, il primo agosto del 1914, decide di partire per l’Europa. A Vienna ha un incontro con un ricco industriale locale per convincerlo ad investire nella American Steel Barrel.

1914, non proprio un anno qualunque visto che quattro giorni prima del suo imbarco, l’Austria ha dichiarato guerra alla Serbia dando inizio alla Prima Guerra Mondiale. Quando giunge in Francia, l’Europa è nel caos. La guerra, seppure all’inizio, potrebbe spaventare chiunque, ma non lei che decide di farsi mandare come corrispondente del “Journal” dal fronte orientale. Il suo editore è d’accordo, perché la stampa americana non si occupa molto del conflitto. Anche qui un altro primato: è la prima donna e una dei primi corrispondenti stranieri a raccontare gli eventi dal fronte orientale.

Nellie si ritrova così in prima linea, a raccontare gli orrori della guerra. Viene anche arrestata, in quanto i soldati austriaci, sentendola parlare inglese, non capiscono che invece è americana. Per fortuna è la sua fama a tirarla fuori dai guai, perché anche oltre oceano Nellie Bly è una star. Anche in guerra decide di applicare la sua idea di giornalismo. Per lei, come abbiamo visto, scrivere vuol dire cambiare la vita delle persone. Sfruttando la sua popolarità, decide di dare il via ad un progetto ambizioso: raccogliere fondi per gli orfani e le vedove di guerra dell’Impero austriaco. Nel marzo 1915 partecipa alle attività della Fondazione benefica. Con alcuni telegrammi inviati al “Journal”, invita i lettori a donare 25 centesimi da convertire in cibo per aiutare la sua causa. Uno sforzo, teso a tirar fuori il lato umano anche in un momento così tragico per l’umanità. Per Nellie, l’avventura in guerra non può continuare però. Nel 1917, infatti, l’America è entrata nel conflitto ed ora lei si ritrova ad essere una nemica dell’Austria. Non solo. Il ricco industriale austriaco che l’aveva aiutata investendo nella sua azienda è anch’egli nemico dell’America. Il suo pacchetto azionario viene confiscato dal governo americano. A questi guai, si aggiunge il desiderio di sua madre e suo fratello di mettere le mani sull’azienda. Nellie così, si ritrova a combattere, questa volta contro la sua famiglia.

Il 27 gennaio 1922, Nellie Bly muore al St. Mark’s Hospital di polmonite. Aveva 57 anni. Le sue spoglie, riposano al Woodlawn Cemetery nel Bronx, a New York. La figura di Nellie Bly e la sua storia, hanno ispirato film, libri, spettacoli teatrali, giochi da tavolo e perfino un parco divertimenti. A noi, resta l’esempio di una donna che ha fatto dell’indipendenza e della libertà il suo marchio di fabbrica.

Siamo giunti al termine di questo episodio, vi ringrazio per l’ascolto. Se volete approfondire la storia di Nellie Bly, vi consiglio il libro di Nicola Attadio: “Dove nasce il vento. Vita di Nellie Bly”. Libro che ho letto e da cui ho preso ispirazione per quest’episodio. Se vi è piaciuta questa storia, vi invito a condividere il podcast, a lasciare un commento o una recensione. Iscrivetevi al canale per non perdere i nuovi episodi. Vi ricordo che “In cerca di storie” è anche su Instagram e Twitter. Vi ringrazio per l’attenzione e vi do appuntamento al prossimo episodio. Ciao!

Libri citati in questo episodio

  • “Dove nasce il vento. Vita di Nellie Bly, a free American girl” di Nicola Attadio. Giunti Editore
  • “Dieci giorni in manicomio” di Nellie Bly. Edizioni clandestine

In cerca di storie è online

Come si fa a coniugare la passione per la storia con quella per il giornalismo? Ad esempio, creando un podcast come In cerca di storie dove racconto storie e personaggi dimenticati o poco conosciuti. Il primo episodio è dedicato a Nellie Bly.

Scrittrice, giornalista, viaggiatrice, manager. Durante la sua vita, Nellie Bly (1864-1922) ha cambiato spesso nome e ruolo, dimostrando in più di un’occasione, alla società del tempo e non solo, che la volontà e lo spirito d’indipendenza, possono portarci a compiere imprese inimmaginabili. Diversi, i primati a lei attribuiti. In questo episodio di In cerca di storie, ripercorriamo la sua mirabile vita.

Su questo sito trovate tutte le trascrizioni degli episodi ed inoltre estratti e approfondimenti.

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