2 dicembre 1943. Porto di Bari. Ore 19.30. È una bella serata e il cielo è limpido. Non si dovrebbe lavorare con il buio, ma gli Alleati non vogliono perdere tempo. Nel porto ci sono almeno 40 navi, cariche di carburante e bombe. Alla luce delle fotoelettriche si lavora senza sosta per scaricarle. Improvvisamente si sente il rumore di un aereo e poi un’esplosione. Una pioggia di bombe che dura appena venti minuti. Un fragore immenso fa da preludio all’inferno. Le fiamme inghiottiscono tutto e tutti. Anche il mare brucia. Nessuno immagina che questo passerà alla storia come il più grande disastro navale americano dopo Pearl Harbor.
Benvenuti a tutti, sono Stefano Frau e questo è In cerca di Storie, il podcast che va alla ricerca di storie o personaggi dimenticati o poco conosciuti.
La storia che vi racconto in questo episodio contiene diversi elementi: segreti, negligenze, censura, tragedie e misteri. Per capire cosa accadde quella sera occorre analizzare ognuno di questi elementi. Di solito lo faccio alla fine di ogni episodio, ma questa volta voglio dirvi in anticipo quali fonti ho utilizzato per ricostruire quanto avvenuto. Due libri: “Veleni di Stato” di Gianluca Di Feo edito da Rizzoli e “Inferno su Bari. Bombe e contaminazione chimica. 1943-1945” di Vito Antonio Leuzzi edito da Edizioni Dal Sud. E poi un documentario che trovate su Rai storia di Fabio Toncelli basato su soggetto e ricerche storiche originali di Francesco Morra dal titolo “2 Dicembre 1943. Inferno sulla città”. Strumenti alla mano siamo pronti per ricostruire la vicenda.
Siamo agli inizi di dicembre del 1943. Gli Alleati stanno lentamente liberando l’Italia. La Puglia è un punto strategico. È qui che stanno ammassando infatti numerosi velivoli e bombe per sferrare da sud l’attacco decisivo alla Germania nazista e distruggerne il sistema industriale. La 15ma Air Force con oltre mille tra quadrimotori e caccia prende forma. Ma per attaccare servono due cose fondamentali: carburante e bombe. Non possono essere trasportate per via aerea, sarebbe troppo pericoloso. Il porto di Bari diviene così lo scalo perfetto per scaricare queste merci che arrivano spesso direttamente dagli Stati Uniti d’America. Il porto di Bari, a differenza di quello Napoli, non ha subito ingenti danni durante i bombardamenti alleati e insieme a quello di Taranto sono gli unici approdi in grado di gestire grandi movimenti di merci.
È per questo motivo che nel porto, quel 2 dicembre 1943, ci sono così tante navi. Immaginate decine di migliaia di tonnellate di tritolo e petrolio concentrate in uno spazio circoscritto. È qui che entra in scena il primo elemento: la negligenza.
Potrebbe sembrare assurdo, ma nonostante la presenza massiccia di ordigni e carburante, nonché il numero considerevole di navi, c’è qualcuno che ha trascurato volontariamente l’aspetto difensivo del porto. Presi dalla fretta di sconfiggere Hitler, gli Alleati ignorano diverse precauzioni. I mezzi della contraerea sono contenuti. I radar presenti, pochi, non sono neanche in grado di localizzare in tempo una eventuale minaccia aerea. Nessuno si sarebbe mai aspettato un attacco tedesco sul porto. La Luftwaffe, a detta degli Alleati, era stata sconfitta. Arthur Coningham, comandante della prima forza tattica della Raf, aveva detto: “Lo prenderei come un affronto personale se le squadriglie tedesche dovessero riuscire a realizzare un attacco”.
A questo aggiungiamo anche la decisione scellerata di lavorare di notte. Il porto è, infatti, illuminato a giorno dalle fotoelettriche. A terra, infiltrati tra i marinai e gli ufficiali, ci sono le spie tedesche che hanno fatto rapporto da tempo sugli strani movimenti al porto.
La Luftwaffe non era stata annientata come tutti credevano. Un mese prima, il 6 novembre, l’aviazione tedesca aveva attaccato le città pugliesi di Canosa e Molfetta. Diversi morti tra i civili ma si era trattato di un bombardamento strategico per testare la reazione difensiva degli Alleati.
L’occasione ora è troppo ghiotta per farsela scappare. Immaginate la scena: migliaia di tonnellate di munizioni e carburante ammassate e quasi incustodite, perché i mezzi della contraerea come abbiamo detto sono quelli che sono. Per giunta, a facilitare il tutto, le navi sono concentrate in uno spazio ristretto ed illuminate in modo perfetto. Il maresciallo tedesco Albert Kesserling sa che non deve perdere questa occasione. È una disattenzione che non ricapita spesso.
Quella sera un aereo ricognitore tedesco sorvola il porto indisturbato. Secondo il suo rapporto ci sono 40 navi. Kesserling dà l’ordine di attaccare. Alle 19.30 105 Junker Ju 88 raggiungono il porto. Prima di sganciare il carico di bombe, rilasciano le Düppel, delle strisce di materiale radar-riflettente in grado appunto di confondere i radar. Il cielo è limpido e per alcuni testimoni, quelle striscioline che cadono sembrano tante stelle cadenti. Non sanno che è solo l’inizio di un incubo. In venti minuti i 105 bombardieri tedeschi scaricano le bombe sul porto. L’inferno ha inizio.
In un effetto domino i mercantili esplodono uno dopo l’altro. Le navi cariche di tritolo e idrocarburi saltano in aria sparpagliando ovunque rottami incandescenti, barili, camion, cannoni e uomini. Alcune testimonianze di chi vide con i propri occhi quell’inferno. Roxanne Pitt, agente dell’Intelligence inglese racconta: “E d’un tratto un fragore spaventoso simile allo scoppio simultaneo di mille tuoni, squarciò l’aria, seguito da una serie di esplosioni minori”. Un altro testimone, Gennaro Dammacco: “Con grande stupore vidi il mare in fiamme. Non capivo, ero meravigliato, non mi rendevo conto che il mare potesse bruciare”. Durante il bombardamento, infatti, le condotte per succhiare il carburante dalle cisterne erano saltate riversando petrolio e nafta nella rada. Anche l’acqua prende fuoco. Per i naufraghi non c’è scampo. Brucia tutto, la terra, il mare, le persone.
Alcuni mercantili rompono gli ormeggi e vanno alla deriva. Almeno 17 navi colano a picco: due polacche, tre italiane, tre norvegesi, quattro inglesi e cinque liberty da carico degli Stati Uniti. 8 vengono semidistrutte. L’esplosione è così potente che alcune navi pesanti centinaia di tonnellate sono state sbalzate in aria ad una altezza di venti metri. L’esplosione ha investito anche la città vecchia scoperchiando le case e incendiando le abitazioni. L’onda d’urto ha frantumato i vetri nel giro di 12 chilometri. In un mare melmoso a causa del petrolio galleggiano rottami e pezzi di cadavere. Una scena apocalittica che dura giorni. La nuvola di fumo è così enorme da oscurare il sole. L’unica nota positiva è che il vento cambia direzione in quei giorni spingendo la nube tossica al largo.
Pompieri e soccorritori in modo eroico tentano di salvare quante più vite possibili, ma c’è qualcosa di strano. Nell’aria e sui corpi dei superstiti. In molti avvertono un odore di aglio. Sembra strano, perché mai avrebbero dovuto portare una nave carica di aglio nel porto? Ci sono poi degli strani segni sui corpi delle vittime e dei superstiti. Inizialmente si crede siano dovuti alle ustioni provocate dall’esplosione, ma con il passare del tempo la situazione degenera.
Ci troviamo così a parlare del secondo elemento: il mistero. I soccorritori e i superstiti hanno difficoltà respiratorie e riescono a tenere a malapena gli occhi aperti. Lacrimano incessantemente. I corpi, poi, iniziano a ricoprirsi di vesciche. Se al porto la situazione è fuori controllo, negli ospedali dove sono arrivati i primi feriti non è che vada meglio. Anzi. Nelle corsie dell’ospedale alcuni feriti in buone condizioni muoiono improvvisamente. C’è qualcosa che non quadra. I sospetti si fanno sempre più concreti. C’è qualcuno che si domanda se quella puzza di aglio sia connessa con quelle morti.
Alle navi superstiti viene dato l’ordine di allontanarsi dal molo. Il cacciatorpediniere Bistera che fa rotta verso Taranto salva 30 naufraghi. Durante il tragitto molti marinai incominciano ad accusare strani effetti collaterali. Ancora una volta occhi che bruciano e difficoltà respiratorie. In poco tempo nessuno sulla nave è in grado di vedere. Sono costretti a lanciare l’SOS e una motovedetta deve arrivare in soccorso.
Trattandosi di navi cariche di bombe, c’è qualcuno, come il dottor Denfeld, che domanda se ci fossero su quelle navi anche testate all’iprite o comunque gas tossici. La risposta del comando generale britannico è laconica: no, nessun gas tossico.
In realtà, ed è qui che passiamo al prossimo elemento, il segreto, su quelle navi c’era qualcosa di tossico ma erano davvero in pochi a saperlo. C’è una nave in particolare, la John Harvey, che cela un carico top secret. Arriva direttamente dagli Stati Uniti e prima di approdare a Bari è passata dal porto algerino di Orano e poi dalla Sicilia. Nel suo manifesto di carico si legge un codice ‘HS’ che significa solo una cosa: gas mostarda, ossia iprite. Un gas altamente tossico e mortale utilizzato già nella prima guerra mondiale dai tedeschi. Fu utilizzato per la prima volta nella città belga di Ypres, da qui il nome. Viene detto mostarda per via del suo odore. Sulla Harvey ci sono circa 100 tonnellate di iprite. Una delle tante anomalie di questa storia è che la Harvey, nonostante il suo carico altamente pericoloso, viene etichettata come “nave a bassa priorità”, questo vuol dire che può essere ormeggiata in qualsiasi zona del porto di Bari.
Sembra che anche la Lyman Abbott avesse lo stesso carico perché dopo l’attacco i marinai indossarono subito le maschere antigas e i testimoni udirono urlare la parola gas. Secondo le stime oltre mille tonnellate di iprite vengono rilasciate nel golfo di Bari.
Ecco spiegate quelle strane morti. I corpi dilaniati dalle ustioni, le vesciche, gli occhi che lacrimano e i problemi respiratori sono dovuti proprio a quel gas. Il problema però è che a terra nessuno lo sa e non lo deve sapere. Solo il comandante britannico del porto, il capitano e la scorta sono a conoscenza del carico ma deve rimanere tutto top secret. Negli ospedali i medici, non sapendo di avere a che fare con gli effetti del gas mostarda, non curano in modo appropriato i pazienti. I loro indumenti, intrisi di nafta e iprite, non vengono rimossi e i loro corpi non vengono lavati lasciando al gas tutto il tempo necessario per mangiarli lentamente ed ucciderli. Come detto in precedenza, i superstiti parlano di odore di aglio, non di mostarda. Secondo alcuni studiosi, molto probabilmente l’iprite mescolandosi alla nafta o all’arsenico aveva assunto un odore diverso. Ma c’è anche chi sostiene che quell’odore sia dovuto al fatto che l’iprite era stata mescolata con un altro composto altamente letale creato in laboratorio negli Stati Uniti: la lewisite, un composto chimico che attacca i polmoni causando avvelenamento.
L’iprite ha una caratteristica: è un gas che uccide lentamente. A distanza di giorni e perfino di anni. Le morti misteriose a Bari si susseguono fino alla metà di dicembre. Da lì in poi, tra la popolazione, aumentano in modo vertiginoso casi di cancro alla pelle, ai polmoni, alla laringe, alla vescica e alla prostata. Numerose persone anni dopo quel disastro scoprono di soffrire di malattie neurologiche, leucemie, diabeti e disturbi del sistema immunitario. L’iprite, è bene ricordarlo, è in grado di alterare la riproduzione del DNA.
Per questo motivo è impossibile avere un chiaro bilancio delle vittime di quel disastro. All’incirca tra militari e civili muoiono subito 2000 persone. Solo a Bari secondo i resoconti degli americani gli avvelenati sono 628. Il 34% degli intossicati perde la vita. Una percentuale alta giustificata dal fatto che l’iprite fosse stata combinata con la lewisite. L’equipaggio della John Harvey, la nave che trasportava il grosso di quel carico di morte, non esiste più, incenerito dall’esplosione.
Ma perché non si può parlare di iprite? Perché gli Alleati tengono nascosto questo elemento? Per capirlo occorre fare qualche passo indietro, precisamente al 1925. Il 17 giugno a Ginevra viene firmato il protocollo, entrato poi in vigore tre anni dopo, che vieta l’uso a fini bellici di gas asfissianti e/o velenosi. Gli effetti delle armi chimiche utilizzate durante la prima guerra mondiale spingono diversi paesi a firmare questo trattato. Tra questi ci sono la Germania, l’Italia, il Regno Unito e gli Stati Uniti d’America. Ma se gli Alleati firmarono questo protocollo, perché allora avevano trasportato e ammassato così tante bombe all’iprite nel porto di Bari?
Tecnicamente il protocollo vieta l’utilizzo ma non la produzione. Per gli Alleati rappresentano un deterrente nei confronti di Hitler. Nel protocollo poi c’è la cosiddetta “clausola di reciprocità”, ossia se uno stato firmatario del protocollo utilizza le armi chimiche, le altre nazioni secondo il ‘diritto di rappresaglia’ possono a loro volta utilizzarle. Il problema però è che gli Alleati temono che se la notizia di Bari e della presenza di armi chimiche venisse divulgata, Hitler potrebbe usarla come pretesto. In effetti per la propaganda, i cattivi disposti ad utilizzare armi non convenzionali sarebbero proprio i democratici Alleati liberatori e non la Germania nazista. Pensiamo anche che gli americani stanno ammassando nuove armi chimiche, infatti la lewisite proviene proprio dai loro laboratori. È per questo motivo che viene proibito categoricamente di parlare di iprite. Su ordine di Churchill, la censura si abbatte anche sulla stampa. Le cartelle cliniche dei pazienti vengono manomesse. I danni provocati al corpo sono da ricondurre ad “azione nemica”. Insomma, la colpa è solo dei tedeschi.
Ricordate il medico Denfeld? Alla fine riesce ad ottenere con tanta insistenza la testimonianza di un sergente americano che soffre degli stessi disturbi provocati dal gas il quale afferma che l’esercito sta accatastando bombe all’iprite nel sud Italia. Nel frattempo la notizia del disastro chimico è arrivata in nord Africa dove si trova il generale Dwight Eisenhower. Qui accade un’altra cosa singolare. Gli americani, infatti, vedono il disastro di Bari come un’opportunità per studiare finalmente gli effetti del gas mostarda sul corpo umano. Non c’era mai stata la possibilità di studiare con strumenti moderni gli effetti di un attacco chimico. I pochi studi risalivano alla prima guerra mondiale. Così Eisenhower ordina al tenente colonnello Stewart Alexander, specializzato nella ricerca sulle armi chimiche, di andare a Bari per salvare i feriti e realizzare un’istruttoria scientifica. Le fonti sono un po’ ambigue, perché c’è chi asserisce che Stewart non sapesse nulla dell’iprite a Bari e chi invece sostiene il contrario. Ma Stewart non ha bisogno di molto tempo per capirlo: passeggiando per le corsie del Policlinico riconosce subito l’odore tipico del gas mostarda e i segni sui corpi delle vittime sono inequivocabili.
Finalmente i pazienti possono essere curati con strumenti e medicine idonee per un attacco chimico. Le cure, purtroppo, sono destinate solo ai militari e ad alcuni cittadini privilegiati. Ai soldati, inoltre, non viene detto che quelle cure sono necessarie perché sono stati vittime di un attacco chimico. Come detto in precedenza, la censura proibisce le parole gas, attacco chimico e iprite. Ai medici britannici viene ordinato di scrivere nei referti come causa di quei segni sul corpo: “Dermatite non ancora determinata”. Quei militari erano allo stesso tempo vittime e cavie. Bastava dire la parola “Bari” per essere subito schedati e inseriti in un dossier top secret. Gli inglesi nascondono le cartelle cliniche di 85 feriti, dei quali 29 deceduti. George Southern, cannoniere sul cacciatorpediniere HMS Zetland, era tra i feriti. Solo nel 1976 gli dissero dell’iprite. I primi risarcimenti per i soldati avvengono solo negli anni Ottanta. Le prime notizie di armi chimiche a Bari trapelano negli U.S.A. solo nel 1959 quando viene desegretata parzialmente la relazione di Alexander. A metà anni Novanta i soldati ebbero degli indennizzi dal Pentagono. Il riconoscimento definitivo dei danni risale al 2005.
Se il numero delle vittime resta ancora un mistero, anche quello delle bombe presenti nel porto quella notte del 2 dicembre 1943 non è chiaro. I resoconti di quell’anno riportano 2000 bombe. Secondo i rapporti britannici del 1944 c’erano 5000 tonnellate di bombe, di cui 540 con carica a iprite e altre al fosforo bianco. In un rapporto del 1997 dell’ICRAM, oggi noto con la sigla ISPRA (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) i palombari italiani recuperarono 15.116 bombe con aggressivi chimici dal fondale. Si trattava della pulizia effettuata nel 1947 dalla Marina militare italiana. Un recupero avvenuto tre anni dopo quello inglese nella primavera del 1944. Questo per dare un’idea dell’immensa quantità di ordigni presenti quel giorno nel porto.
La presenza degli ordigni sul fondale marino è un altro capitolo triste di questa storia perché ancora oggi, nonostante le varie bonifiche, i pescatori si imbattono spesso in ordigni della seconda guerra mondiale. Spesso queste bombe a causa dell’usura dell’involucro rilasciano il loro contenuto. Non è un caso che i livelli di iprite e arsenico in alcune zone marine siano più alti.
La combinazione di tutti questi elementi ha reso l’attacco al porto di Bari il più grande disastro della marina statunitense dopo Pearl Harbor. Il silenzio che avvolse questa tragedia è durato per anni. Per Bari, purtroppo, non fu l’ultima volta. Il 9 aprile 1945 il porto pugliese fu teatro di un altro disastro: l’esplosione della nave Henderson. Uno dei maggiori disastri della guerra nel mar Mediterraneo. 317 civili morirono. Si registrarono danni e crolli anche alla basilica e alla cattedrale.
Pochi giorni prima del disastro di Bari del 1943, il presidente americano Franklin Delano Roosevelt in un discorso pubblico aveva detto: “Proverei disgusto nel credere che qualunque nazione, anche i nostri attuali nemici, possano anche solo pensare di volere gettare sul genere umano armi così terribili e disumane. L’uso di simili armi è stato dichiarato fuorilegge dalla convinzione comune di tutti i popoli civilizzati. Questo Paese non le ha usate. E io dichiaro categoricamente che non le utilizzeremo mai, in nessuna circostanza, finché non verranno impiegate dai nostri nemici”.
Si conclude qui l’episodio di quest’oggi. Se vi è piaciuta questa storia fatemelo sapere nei commenti. Come sempre sul sito http://www.incercadistorie.com trovate le trascrizioni e le fonti. Non dimenticatevi di seguirmi su YouTube e Instagram. Per supportare il podcast condividete l’episodio. Vi ringrazio per l’attenzione e vi do appuntamento al prossimo episodio. Ciao!
Fonti per questo episodio:
- “Veleni di Stato” di Gianluca Di Feo – Rizzoli
- “Inferno su Bari. Bombe e contaminazione chimica. 1943-1945” di Vito Antonio Leuzzi – Edizioni Dal Sud
- “2 Dicembre 1943. Inferno sulla città” documentario scritto da Fabio Toncelli con Francesco Morra disponibile su Rai play