Un maniero? Un castello? Nulla di tutto ciò. In realtà si tratta dell’antica torre dell’acqua di Brema. Costruita tra il 1871 e il 1873, purificava l’acqua del vicino fiume Weser per rifornire la città.
Fu abbandonata nel 1983 e servì solo come serbatoio per il vicino birrificio della Beck’s. Oggi ospita saltuariamente mostre ed eventi.
In Germania tutti la conoscono come il “comò capovolto”. La sua struttura e le quattro torrette, infatti, ricordano appunto un comò rovesciato.
È alta 5,5 m e risale al 1404. Da allora veglia sulla città di Brema proteggendone la sua indipendenza. Parliamo della statua di Rolando (o Orlando) che campeggia nella piazza principale del mercato (la Markplatz).
L’eroe cavalleresco della Chanson de Roland rappresenta la libertà, la giustizia, e l’indipendenza della città. Nel Medioevo era consuetudine collocare nelle città statue che raffigurassero il paladino di Carlo Magno. L’attuale statua sostituì una precedente in legno. È il monumento nel suo genere più grande e più antico in Germania. Dal 1404 ha subito diversi restauri e modifiche. La testa originale è conservata nel Focke Museum di Brema. Miracolosamente è scampata ai bombardamenti della seconda guerra mondiale.
Secondo una leggenda l’indipendenza di Brema dipende da questa statua. Si racconta che nel palazzo del municipio sia custodita una seconda statua pronta ad essere collocata in piazza, nel caso la prima venisse distrutta.
Benvenuti a tutti, sono Stefano Frau e questo è In cerca di Storie, il podcast che va alla ricerca di storie o personaggi dimenticati o poco conosciuti.
L’episodio di quest’oggi è un po’ diverso dagli altri. Perché oggi vi racconto per la prima volta la storia di un posto. Per essere più precisi, la storia di un edificio che per anni ha ospitato il quartier generale della più importante agenzia di sicurezza dell’Unione Sovietica. Sto parlando del museo del KGB di Vilnius.
Ho visitato il museo settimana scorsa. Si trova nel centro della capitale lituana. Bianco, maestoso, con la sua architettura tipica dei primi del Novecento, stona un po’ con la sua storia. Perché da fuori è così bello che risulta difficile pensare agli orrori che ha celato per anni. Tra quelle mura si è scritta una delle pagine più buie della storia della Lituania e dell’umanità intera.
Iniziamo con un po’ di dati sulla struttura. L’edificio che ospita il “Museo dell’occupazione e delle lotte per la libertà”, questo è il suo nome anche se comunemente tutti lo chiamano “Museo del KGB” o “museo delle vittime del genocidio”, ha oltre 100 anni. La parte centrale risale al 1899. Fino al giorno dell’indipendenza Lituana, datata 11 marzo 1990, questo edificio ha ospitato il quartier generale dei diversi invasori. Qui, infatti, si sono succeduti russi, polacchi, tedeschi. Quest’ultimi, tra il 1941 e il 1944, stabilirono qui la sede della Gestapo e da qui orchestrarono lo sterminio degli oltre 200000 ebrei in Lituania. Dal 1944 al 1991 è stato il quartier generale del KGB. Gli ultimi prigionieri della polizia segreta sovietica furono liberati solo nel 1987.
Ma cosa c’era al suo interno? Sviluppato su tre piani più i sotterranei, c’erano gli uffici amministrativi, le stanze per lo spionaggio, quelle per gli interrogatori, le celle e le camere per le esecuzioni.
Durante gli anni ha subito diverse trasformazioni. Il numero delle celle, infatti, variò. All’incirca c’erano una ventina di celle. Alcune vennero adibite per altri scopi. Il museo come lo conosciamo oggi fu aperto il 14 ottobre 1992.
Ammetto che visitarlo mette un po’ i brividi. Ogni piano racconta momenti precisi dell’occupazione sovietica in Lituania. C’è la sezione dedicata alle lotte partigiane, dove si racconta la storia dei circa 30000 partigiani lituani che, nascosti nelle foreste, lottarono eroicamente per la libertà della propria nazione; poi la sezione dedicata al genocidio vero e proprio, fatto di deportazioni in massa e stermini.
Mi fermo un attimo su questa sezione per darvi alcuni numeri. Nel museo si possono apprezzare foto dell’epoca, vestiti o semplici oggetti che descrivono meglio delle parole cosa fu la deportazione in Siberia dei lituani. Il genocidio, purtroppo, non risparmiò neanche i bambini. Tra il 1941 e il 1953 circa 39000 bambini furono deportati in Russia. 5000 bambini morirono in esilio. Il primo anno di esilio, ma soprattutto il primo inverno, erano cruciali. Molti di essi morirono proprio per il gelo e le privazioni. I lavori forzati e le scarse razioni di cibo investivano tutti. Donne, uomini, anziani, attraverso lettere e foto, si possono rivivere quei tragici momenti.
La sezione dello spionaggio è forse quella più “leggera”, permettetemi quest’espressione. In mostra non solo documenti ufficiali del tempo redatti dai funzionari del KGB, ma anche gli strumenti utilizzati per captare informazioni utili. Dalle cimici alle fotocamere che potevano essere nascoste sotto la giacca. L’alta tecnologia del tempo utilizzata per spiare e controllare una nazione intera. Il numero di persone spiate nella sola Lituania durante il periodo dell’occupazione è imprecisato. Secondo alcuni documenti del KGB, nel solo 1971 circa 1231 persone furono spiate. In realtà, come possiamo intuire, i numeri erano ben maggiori. Nello stesso anno si stima ad esempio che i circa 12000 stranieri che vennero in Lituania per i più disparati motivi furono spiati. Non solo chi entrava, ma anche chi lasciava il paese come gli oltre cinquemila lituani che furono spiati all’estero. Un paese che pullulava di spiati e spie. Dove nessun luogo era sicuro. Dove tutti dovevano diffidare del prossimo. Gli agenti segreti, infatti, costituivano l’ossatura principale della polizia segreta. Nel 1977 operavano circa 5000 agenti del KGB in Lituania. Nei primi anni ’90 oltre 6000.
Visitare la sezione delle celle vuol dire fare un viaggio nel tempo. Alcune di esse sono state ricostruite, altre conservano ancora gli interni di un tempo. La prima cosa che mi ha colpito è l’atmosfera che si respira. Ho visitato il museo in estate, tra l’altro durante un’ondata di calore anomala per le estati lituane. Fuori c’erano circa 31 gradi, la sezione delle celle era fresca. Nell’aria un forte tanfo di umidità. Ho immaginato come doveva essere questo posto pieno zeppo di detenuti, ma soprattutto in inverno. Gli inverni lituani, e io che ci vivo in Lituania ve lo posso confermare, sono freddi. Magari ora con il surriscaldamento globale è un po’ diverso, ma durante l’inverno le temperature possono toccare anche i -28. Ora immaginate questi luoghi angusti, spesso senza riscaldamento, dove i prigionieri attendevano la loro sorte, che raramente era la libertà.
Ci sono celle minuscole grandi all’incirca 60 centimetri quadrati dove i nuovi detenuti dovevano aspettare non appena giunti presso gli uffici del KGB. Mentre gli ufficiali sbrigavano le pratiche, loro aspettavano fino a tre ore in piedi. Non potevano comunicare con nessuno. Dopo la morte di Stalin sembra che le condizioni per i prigionieri migliorarono un po’. Infatti si potevano sedere invece di attendere in piedi.
Come detto ho immaginato questa struttura in funzione. Ho immaginato i detenuti passare il loro tempo in queste celle. Riesce difficile pensare a come potevano passare il tempo, ad esempio, nella cella di isolamento. Creata per coloro che infrangevano le regole della prigione, aveva una piccola finestra ed era priva di riscaldamento. Le condizioni erano proibitive. Il detenuto poteva di solito indossare solo biancheria intima e doveva restare rigorosamente scalzo. Gli veniva somministrata al giorno una razione di cibo spaventosa: 300 grammi di pane e mezzo litro di acqua tiepida. Poteva dormire solo 5 ore. Esercizi nel cortile, visite o lettere erano proibiti.
Quando vi ho parlato di un’esperienza che mette i brividi è perché alcune celle superano l’immaginazione. Ce n’è una che è nota come “cella di isolamento nell’acqua”. All’interno di essa c’è una piccola piattaforma circolare sopraelevata rispetto al pavimento. Il detenuto era costretto a rimanere in piedi su questa piattaforma minuscola mentre tutto attorno era circondato dall’acqua. Se avesse perso l’equilibrio, cosa che accadeva spesso in quanto passava ore in quella posizione, sarebbe caduto in acqua. Spesso gelida, in quanto d’inverno congelava e si trasformava in una lastra di ghiaccio. Secondo le testimonianze contenute negli archivi, questo tipo di celle fu costruito nel 1945 per poi essere trasformate in infermerie e biblioteche durante gli anni ’50.
Ce n’è poi una che è passata alla storia come “la cella imbottita”. Un nome che non farebbe pensare a nulla di drammatico e invece… Invece questa cella si chiamava così perché le pareti, nonché la porta, erano imbottiti in modo tale da renderla insonorizzata. Nessuno doveva sentire le urla e i pianti di coloro che venivano torturati al suo interno. C’è ancora una camicia di forza legata alle pareti. Serviva per tenere in piedi i detenuti stremati dalle torture.
Quando vi ho parlato della cella di isolamento, ho menzionato gli esercizi nel cortile. Questo altro non era che uno spazio all’aperto adibito a prigione. Piccole celle circondate da mura con il tetto chiuso da una rete.
Si conclude qui la storia sul museo del KGB di Vilnius. So che un podcast non può rendere appieno l’idea di cosa dovesse essere questo luogo durante l’occupazione sovietica. Se passate da Vilnius dovete visitarlo per forza. Nel frattempo sul sito di In cerca di storie trovate le foto che ho scattato. Non dimenticatevi di seguirmi su YouTube e Instagram dove trovate anche alcuni video.
Se vi è piaciuta questa storia fatemelo sapere nei commenti. Vi ringrazio per l’attenzione e vi do appuntamento al prossimo episodio. Ciao!
È il 5 maggio 1860. Una data che si rivelerà storica per le sorti dell’Italia. A Quarto, infatti, è tutto pronto per quella che passerà alla storia come la spedizione dei Mille. Giuseppe Garibaldi è stato categorico: le mogli o le fidanzate dei soldati non possono seguire i propri compagni. Ma c’è una donna che non ne vuole sapere di restare a terra. È fiera e determinata, a tal punto che perfino Garibaldi deve cedere. L’eroe dei due mondi la mette in guardia con queste parole: “Venite dunque se così vi piace, ma ricordatevi che vi esponete a grave rischio e pericolo e che io non posso rispondere di nulla”. Questa è la storia di Rose Montmasson, l’unica donna a partecipare alla spedizione dei Mille.
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Personaggi dimenticati. Rose Montmasson rientra, ahimè, tra questi. L’eroina della spedizione dei Mille finì nel dimenticatoio già quando era in vita. Cerchiamo di ricostruire la sua storia per capirne l’importanza che ebbe per il nostro paese.
Rose Montmasson nasce il 12 gennaio 1823 a Saint-Jorioz, villaggio dell’Alta Savoia, allora parte del Regno di Sardegna ed oggi situato a non più di cento chilometri dall’attuale confine con l’Italia. La sua è una famiglia di umili condizioni. Figlia di contadini è la quarta di cinque figli. Riceve un’istruzione di base che le permette di imparare a scrivere, leggere e fare i conti. Lascia presto la sua famiglia e si trasferisce a Marsiglia e poi a Torino. Lavora come stiratrice e guardarobiera. La tesi più accreditata è che proprio nella città francese conobbe colui che cambiò per sempre la sua vita: Francesco Crispi, futuro presidente del consiglio dei ministri.
L’incontro avvenne nel giugno del 1849. Crispi a quel tempo si trovava in esilio a causa del suo ruolo di primo piano nella rivoluzione siciliana del ‘48/’49. Affascinata dalla sua figura e dagli ideali risorgimentali, Rose si innamora di Crispi. I due si spostano a Malta, dove intanto il futuro presidente del consiglio si era rifugiato. Nell’isola entrano in contatto con i circoli di esuli italiani. Nel clima caldo di quegli anni, fatto di moti e insurrezioni, organizzazioni segrete e spie, Crispi porta avanti i suoi ideali rivoluzionari. I suoi editoriali al veleno sul giornale politico «La Staffetta» gli valgono un decreto d’espulsione. Prima di lasciare l’isola e andare a Londra dove raggiungerà Giuseppe Mazzini, il 27 dicembre del 1854 sposa Rose.
Il matrimonio merita un discorso a parte. Celebrato in gran fretta, viene officiato da padre Luigi Marchetti. Un “sacerdote romano” come viene descritto nelle fonti antiche, “venuto in Malta a curarsi dal mal di tisi”. In realtà quel prete non potrebbe celebrare il matrimonio per un semplice fatto: è stato sospeso a divinis. Secondo il diritto canonico della Chiesa cattolica, non può amministrare i sacramenti. Non un dettaglio da poco che tornerà a stravolgere la storia della nostra protagonista.
Lasciamo da parte il prete sospeso e continuiamo con la nostra storia. Rose si trova a Londra con il marito. Insieme a Giuseppe Mazzini continuano la loro battaglia politica. Lei non resta in disparte e fa di tutto per avere un ruolo attivo nell’organizzazione dei vari comitati insurrezionali.
Quando viene a sapere della spedizione dei Mille non ci pensa due volte: vuole essere anche lei insieme al marito sul “Piemonte”, una delle due navi che porterà i garibaldini in Sicilia. Come detto in apertura, Garibaldi non vuole donne a bordo. Ma in questo caso né lui né il marito Crispi riescono a dissuaderla. Travestita da soldato si imbarca con entrambi. In realtà su quella nave ci sarebbe dovuta essere un’altra donna: la duchessa Felicita Bevilacqua La Masa che si distinse nei moti del ’48. Nonostante il lasciapassare di Garibaldi, il marito Giuseppe riuscì a convincerla a non partire.
Una volta sbarcati a Marsala, Rose non fa mancare il suo impegno neanche sul campo di battaglia. Il suo aiuto alle forze combattenti è determinante, soprattutto quando si tratta di curare i feriti o imbracciare il fucile per difenderli. Si mette in mostra nella battaglia di Calatafimi del 15 maggio 1860 tanto da meritarsi l’appellativo di “Angelo di Calatafimi”. Tutti ormai la chiamano Rosalia e le sue gesta sono note in tutto il paese.
La spedizione siciliana rappresenta il punto più alto nella sua vita. Terminati i moti rivoluzionari, la sua figura passa sempre di più in secondo piano. L’ascesa politica del marito, infatti, coincide con il suo declino. Rose segue il marito prima a Firenze, allora capitale del neonato Stato unitario, e poi a Roma. In Toscana vive una vita tranquilla. Ricchezze e agi non mancano. È pur sempre la moglie del deputato Francesco Crispi, ma quello che la rende una vera star è proprio la sua partecipazione alla spedizione dei Mille. Alcuni dei reduci di quella impresa le regalano una croce di diamanti e una medaglia per commemorare quell’impresa. Come dirà lei stessa: “è mia perché io ero con loro”. Ma la vita spensierata di Firenze è destinata a finire.
Rose e il marito si trasferiscono nella nuova capitale a Roma. Qui il loro matrimonio va in crisi. Lei prova in tutti i modi a salvarlo, ricorrendo anche ad alcuni eccessi come riempire la casa di animali. Sembra che i due avessero in casa cani, gatti, pappagalli, scoiattoli, pavoni e tassi. Ma questo non serve. Crispi si è invaghito di una vedova trentenne, Filomena (detta Lina) Barbagallo. I dissidi in famiglia diventano così intensi che alla fine Rose decide, in cambio di un assegno annuale, di lasciare la sua casa. Nel 1878 Crispi sposa la sua nuova compagna dalla quale aveva avuto un bambino. È il matrimonio della discordia. I due, specialmente Lina Barbagallo, sono al centro delle cronache del tempo. Gli aggettivi negativi per Lina si sprecano. Viene definita “maligna, corrotta, sospettosa”, per alcuni è la “nuova messalina” per via della sua dubbia moralità. Il matrimonio stesso costa a Crispi un accusa di bigamia. Vi ricordate infatti il matrimonio contratto a Malta? Ecco, in teoria, Crispi non potrebbe risposarsi. In teoria, perché in pratica trova un escamotage. Ripudia Rose definendo il matrimonio maltese non ufficiale. Per lui quel matrimonio non ha valore legale e nemmeno affettivo. Lo ha fatto solo per accontentare Rose. Quel prete poi era anche sospeso dalla Chiesa cattolica. Come potrebbe valere qualcosa? La sua difesa funziona e Crispi viene assolto. Può vivere tranquillo la sua vita con la sua nuova sposa. E Rose?
Rose scompare nell’ombra. Abbandona progressivamente la scena pubblica e decide di non commentare la decisione del suo ex marito. Ormai dimenticata da tutti, muore in povertà il 10 novembre 1904. Tra le sue ultime volontà, quella di essere sepolta con la camicia rossa e di ricevere una cerimonia laica. Alle esequie non partecipa nessuna autorità dello Stato, fatta eccezione per il senatore Francesco Cucchi. Queste le sue parole durante l’orazione funebre: “Ebbi la fortuna di conoscere Rosalia Montmasson il 5 maggio 1860, mentre col marito Francesco Crispi, saliva a bordo della nave, in cui si trovava Giuseppe Garibaldi, la nave che conduceva i Mille a Marsala. Da Quarto a Marsala, Rosalia Montmasson non si occupò che di tutto quello che poteva servire ai garibaldini. A Calatafimi assistette i feriti con fede, con diligenza ed amore. Non mi dilungherò sulla vita della valorosa donna che cooperò grandemente alla indipendenza d’Italia e fu una delle grandi amiche del nostro Paese. Le porgo l’ultimo saluto”. Al funerale partecipò anche Maria Crispi Caratozzolo, sorella maggiore di Francesco che era scomparso tre anni prima.
Al momento della sua morte è talmente povera che il Comune di Roma le dona gratuitamente un loculo nel cimitero monumentale del Verano. Sulla sua lapide si legge: “Prima moglie di Francesco Crispi con lui cospirò per l’unità della patria. Con lui prese parte alla leggendaria spedizione dei mille. Unica donna nella legione immortale, ne divenne l’eroina”.
Siamo giunti al termine della nostra storia. Vi ringrazio per l’ascolto. Prima di chiudere alcune precisazioni. Durante tutto l’episodio ho utilizzato il nome Rose, ma come ho già detto, il suo nome venne spesso italianizzato come Rosa o Rosalia. L’altra precisazione è che in Sicilia, non fu l’unica donna al seguito delle truppe garibaldine. Secondo le testimonianze anche altre donne presero parte all’impresa come Antonia Masanello, la romana “Marzia”, la palermitana “Lia” e l’anglo-italiana Jessie White-Mario.
Come sempre, sul sito di In cerca di storie, trovate le fonti per questo episodio, tra cui il libro “La ragazza di Marsiglia” scritto da Maria Attanasio ed edito da Sellerio.
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Vi ringrazio per l’attenzione e vi do appuntamento al prossimo episodio. Ciao!
Continua la mia ricerca di luoghi di interesse storico a Vilnius, capitale della Lituania. Questa volta vi mostro i bunker costruiti nel bosco di Antakalnio dall’esercito polacco.
Risalgono al periodo tra il 1924 e il 1926, quando la Polonia occupava il territorio lituano dopo aver vinto la cosiddetta guerra polacco-lituana del 1920. Dopo il primo conflitto mondiale, infatti, la Polonia non accettò l’indipendenza della vicina Lituania e la occupò militarmente.
Questi bunker non fungevano solo da sistema di difesa ma anche da magazzino per le munizioni. Nonostante la Polonia avesse costruito diversi bunker per fortificare la città (nella sola regione di Antakalnio ce ne sono 5 con 10 ingressi), non svolsero mai a pieno il loro ruolo di difesa. Non respinsero i tedeschi che occuparono la città dall’altro lato. Durante e dopo la seconda guerra mondiale furono utilizzati come nascondigli e magazzini.
Uno dei bunker è a due piani. I sotterranei sono disseminati di tunnel e condotti di areazione. C’erano anche binari per il trasporto di merci e munizioni.
L’ingresso è sbarrato perché i bunker ospitano colonie di specie protette di pipistrelli. Per preservare queste specie (ne sono state individuate ben 6), in alcuni periodi dell’anno, è vietato visitare i bunker.
Se vi trovate a Vilnius ed amate la storia non potete perdervi il museo letterario Alexander Pushkin. Immerso nel verde del parco di Markučiai, conserva cimeli ed opere del grande poeta e drammaturgo russo.
La sua peculiarità è che si tratta di una casa-museo. Qui infatti vissero i coniugi Varvara e Grigorij Pushkin, figlio di Alexander. Durante la sua vita, Girgorij portò in salvo e conservò diversi oggetti appartenenti al padre. Dei 34 libri pubblicati quando Alexander Pushkin era in vita, ben 21 sono conservati all’interno del museo. Come da testamento, la casa dei coniugi Pushkin divenne un museo a partire dal 1935. Salvo alcune modifiche, è rimasta immutata fino ai giorni nostri.
Adiacente al museo c’è anche la cappella di famiglia e il piccolo cimitero che ospita i corpi dei coniugi Pushkin e della loro governante.
Il museo ha un biglietto di ingresso di 1.20 euro. Le descrizioni degli oggetti esposti sono purtroppo solo in lituano e russo.
Il pubblico è immobile con lo sguardo all’insù. Adulti, bambini, uomini, donne, tutti sono stregati dalle acrobazie di quell’aereo. È domenica. Siamo a Long Islands a New York. È il 3 settembre 1922, ed uno spettacolo così non si era mai visto; un pilota così non si era mai visto. Perché a pilotare quell’aereo, un Curtiss JN-4D Jenny, c’è lei: “Brave Bessie”, “Bessie la coraggiosa”, la prima donna pilota afroamericana e la prima di origine nativa americana. Questa è la storia di Bessie Coleman, la donna che volò più in alto dei pregiudizi.
Benvenuti a tutti, sono Stefano Frau e questo è In cerca di Storie, il podcast che va alla ricerca di storie o personaggi dimenticati o poco conosciuti.
Se uno sceneggiatore avesse bisogno di una storia perfetta da portare al cinema, sceglierebbe di sicuro quella di Bessie Coleman. Una donna, nera, emarginata, che fa a pugni con la società retrograda del suo tempo. Una donna determinata e coraggiosa che è disposta a tutto per inseguire il suo sogno. E che sogno. Volare. Essere la prima donna afroamericana a pilotare un aereo. Per apprezzare ancora di più la sua impresa, dobbiamo tornare indietro di molti anni, alla fine del XIX secolo, ad Atlanta, una piccola cittadina del Texas.
È il 26 gennaio 1892 quando Susan Coleman mette al mondo Bessie. Siamo in Texas e da neanche 30 anni, gli Stati Uniti d’America hanno ufficialmente abolito la schiavitù. Almeno sulla carta, perché nel mondo reale sono sempre gli afroamericani a svolgere i lavori più duri. E nonostante il tredicesimo emendamento, la disparità tra bianchi e neri resta e si radica, specialmente in uno stato conservatore come il Texas. La famiglia di Bessie, come accadeva spesso in quegli anni, è numerosa. I coniugi Coleman hanno ben 13 figli. George è un mezzadro di origine mista nativa americana e afroamericana; Susan è una cameriera afroamericana. Tempi difficili, soprattutto se sei di colore e vivi in uno stato che fa della segregazione razziale uno dei suoi cardini. Ed è così che papà George, stanco dei soprusi e delle violenze, nel 1901 decide di andare in Oklahoma. La moglie Susan però non lo segue. Bessie resta con sua madre in Texas.
Per vivere, sopravvivere meglio, Bessie raccoglie il cotone e nel tempo libero lava il bucato per guadagnare qualche soldo extra. Sente un istinto irrefrenabile di elevarsi. Sa che il primo passo è l’istruzione. Mette così da parte un po’ di soldi e quando compie 18 anni si iscrive alla “Colored Agricultural and Normal University” a Langston, in Oklahoma. Il college però costa troppo e dopo un semestre è a corto di soldi e costretta a lasciare. Decide allora di spostarsi a Chicago dove vivono i suoi fratelli. Frequenta la Burnham School of Beauty Culture e nel 1915 inizia a lavorare presso un barbiere del posto facendo la manicure.
I suoi fratelli nel frattempo sono stati chiamati alle armi. La prima guerra mondiale dilaga e i fratelli di Bessie vengono mandati in Francia. Lei non lo sa, ma quell’evento cambierà per sempre la sua vita. Infatti, una volta tornati in patria, i suoi fratelli hanno mille storie da raccontare. È il 1919 quando un bel giorno suo fratello John, un po’ alterato dall’alcool, inizia a prenderla in giro. Le dice che in Francia le donne sono libere, talmente libere che possono perfino pilotare un aereo. Ma soprattutto le dice che una donna afroamericana non potrà mai pilotare un aereo.
Ho immaginato la scena come quella del film “Ritorno al futuro”, dove Marty McFly dice: “Nessuno può chiamarmi fifone”. Bessie la prende come un sfida. Nessuno può dirle che una donna afroamericana non diventerà mai un pilota. Suo fratello John su una cosa ha ragione però: negli Stati Uniti, lei, una donna, nera, non verrà mai accettata in nessuna scuola di aviazione.
Bessie lo scopre sulla sua pelle dopo aver ricevuto una sfilza di no dalle scuole statunitensi. Ma una sfida è una sfida e non ci si può arrendere al primo ostacolo. Ecco che in suo aiuto arriva Robert Abbott. Robert è un uomo di colore. Occorre precisarlo perché siamo sempre negli anni Venti e il colore della pelle, purtroppo, può segnare il tuo destino. Fa l’avvocato ma è noto in tutto il paese perché nel 1905 ha fondato con appena 25 cents il “The Chicago defender”, un giornale che di lì a breve diviene il primo quotidiano per numero di tiratura nel paese posseduto da gente di colore. Abbott, insieme al banchiere Jesse Binga, l’aiutano sul piano economico. Bessie nel frattempo cambia lavoro per racimolare più soldi possibili e nel tempo libero studia il francese. Il 20 novembre 1920 arriva il gran giorno. A bordo del SS Imperator salpa in direzione Europa. È stata accettata, infatti, dalla scuola di aviazione francese “Caudron Brothers School of Aviation” di Le Crotoy.
In Francia, segue questo corso di sette mesi per imparare a pilotare un Nieuport Type 82: un biplano lungo 8 metri con un’apertura alare di 12. Aveva una cabina di pilotaggio per l’istruttore e una per lo studente. Seppur all’avanguardia per quei tempi, era pur sempre un aereo rudimentale con molti limiti. Senza freni e cloche, non era facile pilotarlo. Pensiamo che le lezioni non prevedevano solo imparare a volare, ma anche effettuare acrobazie e manovre rischiose in aria. La stessa Bessie assiste alla morte di un suo compagno di corso durante una lezione. Per fortuna, riesce incolume a concludere il corso e il 15 giugno 1921 riceve la licenza di pilota internazionale dalla Fédération Aéronautique Internationale. La sua specializzazione è volo acrobatico e paracadutismo. È la prima donna americana ad ottenere questa licenza.
Una volta tornata negli States inizia la seconda parte della sfida. Sì, perché il suo sogno non era ottenere solo la licenza. Lei vuole volare, vuole un aereo tutto suo ed aprire una scuola di volo. Ma siamo negli anni Venti, la segregazione razziale è troppo radicata, e Bessie deve tornare con i piedi per terra. Il sesso e il colore della pelle le impediscono di ottenere una licenza commerciale. L’unica possibilità è il volo acrobatico. Le sue peripezie in volo in Francia sono note in tutta Europa e anche negli Stati Uniti. Giornali e cinegiornali hanno immortalato le sue acrobazie. Per poter comprare un aereo ha bisogno di soldi. Tanti soldi. Decide di tenere corsi ed eventi in giro per il paese dove mostra le sue abilità e i suoi trucchi. Non fa mancare il suo impegno nella lotta contro la segregazione razziale. È categorica nella scelta della città dove esibirsi: se la città è stata teatro di episodi di razzismo, lei non ci metterà piede. Ad ogni incontro sprona la comunità afroamericana ad interessarsi al mondo dell’aviazione. Raccoglie perfino fondi per fondare una scuola dove addestrare piloti di colore.
Il 3 settembre 1922 è un’altra data storica. Come raccontato all’inizio dell’episodio, Bessie a bordo di un Curtiss JN-4D diviene la prima donna afroamericana ad organizzare un volo pubblico negli Stati Uniti. La sua popolarità esplode. Non è solo “Bessie la coraggiosa”, come ormai tutti la chiamano, ma anche “Bessie the queen”, la regina dei cieli. I suoi voli acrobatici lasciano tutti senza fiato. Con l’aereo è in grado di compiere il giro della morte, di disegnare il numero 8 nel cielo e quando si stanca lasciare il comando al co-pilota e perché no farsi una passeggiata sulle ali prima di lanciarsi con il paracadute. Bessie, la ragazza nera che raccoglieva il cotone per sopravvivere, ha finalmente realizzato il suo sogno e lasciato il suo nome impresso nella storia.
L’industria cinematografica la nota subito. In fondo, la sua storia come detto è perfetta per una sceneggiatura. Le viene proposto un film sulla sua vita. Sarà lei a interpretare se stessa. Tutto bello, anzi no. Bessie viene a sapere come è stato ideato l’inizio del film. C’è una bambina nera vestita di stracci. Lei non ci sta. Rifiuta la parte e alla rivista Billboard dichiara: “Niente roba da zio Tom per me”.
Personalità e impegno civile. Bessie continua i suoi show in giro per il paese e finalmente mette da parte i soldi necessari per comprare un aereo. Un altro Curtiss JN-4D, meglio conosciuto con il nome di “Jenny”, con un motore OX-5. Un aereo costruito originariamente per gli addestramenti. Sul sito del National Air and Space Museum trovate le foto di questo aereo (clicca qui). A vederle un po’ mettono i brividi. Perché abituati alle cabine di comando moderne computerizzate e piene di comandi e pulsanti, si resta senza parole nel vederne una cabina così rudimentale: completamente in legno, risaltano una leva, un altimetro e una bussola. E pensare che questo bastava per pilotare un aereo durante uno spettacolo o in situazioni più pericolose come i duelli aerei in guerra.
Ma torniamo alla nostra storia. Bessie deve andare a ritirarlo a Santa Monica in California. È il febbraio del 1923 e mentre si trova in California per ritirare il suo aereo, decide di esibirsi in uno spettacolo non lontano da Los Angeles. Mentre è in volo verso la fiera il motore del suo aereo smette improvvisamente di funzionare. In picchiata, Bessie si lancia da circa 90 metri. Per fortuna non muore ma quell’incidente le costa una frattura alla gamba, qualche costola e l’aereo completamente distrutto. Nonostante lo spavento, non si perde d’animo e chiede al dottore intervenuto sul posto di curarla il più velocemente possibile per poter tornare a volare. Trova il tempo di inviare un telegramma ai suoi fan rassicurandoli che presto sarebbe tornata. In realtà il suo ottimismo deve fare i conti con la gravità dell’incidente. Impiega mesi per tornare a camminare e circa due anni per rivederla in cabina di pilotaggio.
Il suo impegno civile continua più forte che mai. Si racconta che quando le fu chiesto di partecipare ad una esibizione nella sua città natale in Texas, abbia espresso chiaramente il suo rifiuto alla decisione dei manager di creare due ingressi separati allo stadio per bianchi e neri. Bessie ottenne dai manager che ci fosse un solo ingresso per tutti. Anche se all’interno dello stadio gli spettatori dovevano sedersi in posti separati a seconda del colore della pelle, era comunque un successo.
Nell’aprile del 1926 ha raccolto abbastanza soldi per comprare un altro aereo. Stesso modello di quello distrutto in California. Ha uno spettacolo in programma per il 1 maggio. Il 30 aprile a Jacksonville, in Florida, decide con il meccanico William Wills di fare un giro di prova. Wills in cabina di regia e Bessie sul sedile del passeggero. È una mattinata tranquilla. Il tempo è buono e i due colgono l’occasione al volo per vedere fino a che punto può arrivare quell’aereo. Wills fa volare l’aereo per circa 5 minuti a 2000 piedi. Poi sale a 3500. Poi… Poi qualcosa va storto. L’aereo perde quota improvvisamente e si capovolge. Bessie non indossa la cintura e l’aereo non ha alcun tetto o protezione. Viene sbalzata fuori ad una altezza di 500 piedi, circa 150 metri. Questa volta non c’è nulla da fare. Muore sul colpo. Wills precipita con l’aereo e muore anche lui. Un soccorritore maldestro intervenuto sulla scena per liberare il corpo di Wills incastrato sotto l’aereo si accende una sigaretta e fa scoppiare un incendio. Le fiamme avvolgono l’aereo. A causare l’incidente una chiave inglese incastrata nel motore. Bessie Coleman aveva solo 34 anni.
I pregiudizi razziali non si sciolgono neanche di fronte alla morte. La stampa nazionale dà risalto alla morte di Wills perché bianco. Coleman viene quasi ignorata. Solo i giornali vicini alla comunità afroamericana la ricordano. Alla sua cerimonia funebre a Chicago partecipano circa 10.000 persone. A guidare il corteo la giornalista e attivista afroamericana Ida Wells.
Diversi gli eventi per ricordare la sua figura. Nel 1931, la Challenger Pilots’ Association di Chicago diede inizio a una tradizione di sorvolo sulla tomba di Coleman ogni anno. Nel 1977, le donne pilota afroamericane formarono il Bessie Coleman Aviators Club. Nel 1995 fu anche realizzato un francobollo per ricordare tutti i suoi successi. Diverse strade in prossimità degli aeroporti portano il suo nome.
Nel 1992 Mae Jemison, la prima donna afroamericana ad andare nello spazio, portò con se in orbita una foto proprio di Bessie Coleman. Un tributo per non dimenticare colei che volò più in alto dei suoi sogni.
Siamo giunti al termine della nostra storia. Vi ringrazio per l’ascolto. Sul sito www.incercadistorie.com trovate la trascrizione dell’episodio e le fonti consultate. Sulla figura di Bessie Coleman c’è il libro “Queen Bess: Daredevil Aviator” di Doris Rich. Ci sono un sacco di aneddoti sulla sua vita.
Se poi siete curiosi e volete vedere com’era la licenza di pilota di Bessie o i suoi aerei, vi invito ad andare sulla pagina Instagram di In cerca di storie dove troverete nelle stories tutte le foto.
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Fonti per questo podcast
– “Overlooked No More: Bessie Coleman, Pioneering African-American Aviatrix” di Daniel E. Slotnik – New York Times
– “Bessie Coleman” – Britannica
– “Bessie Coleman” di Kerri Lee Alexander, NWHM Fellow – National Women’s History Museum
– “Queen Bess: Daredevil Aviator” di Doris L. Rich – Smithsonian Books
– “Celebrating the Centennial of Bessie Coleman as the First Licensed African American Woman Pilot” di Dorothy Cochrane – National Air and Space Museum
Immaginate di dovervi sottoporre ad un intervento di rinoplastica. Il chirurgo vi illustra il metodo che utilizzerà. Taglierà un lembo di pelle dal braccio sinistro, lasciando un lato ancora attaccato, vi chiederà poi di avvicinare il braccio alla faccia così da poter applicare il lembo tagliato sul vostro naso. Infine, affinché attecchisca bene, vi chiederà di rimanere in quella posizione per un po’ di tempo. Diciamo per settimane. Forse anche mesi.
Ecco se dovesse succedere, scappate. Perché il metodo appena descritto sembra più una tortura eseguita da un chirurgo sadico che un intervento di chirurgia plastica. Eppure questo metodo, passato alla storia con il nome di “metodo italiano”, è realmente esistito. Colui che affinò questa tecnica rendendola famosa in tutto il mondo è considerato ancora oggi uno dei padri della moderna chirurgia estetica. Questa è la storia di Gaspare Tagliacozzi.
Benvenuti a tutti, sono Stefano Frau e questo è In cerca di Storie, il podcast che va alla ricerca di storie o personaggi dimenticati o poco conosciuti.
Se visitate l’Archiginnasio di Bologna, un tempo sede dell’antica Università ed ora della Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio, noterete una statua un po’ particolare all’interno della sala di anatomia. Non è tanto il personaggio ritratto a colpire, quanto l’oggetto che stringe tra le dita della mano sinistra: un naso. Sì, quella è la statua di Gaspare Tagliacozzi e non è un caso che si trovi proprio lì, perché la sua fama di chirurgo nacque tra le mura di quella università.
La sua data di nascita è stata a lungo dibattuta. Molto probabilmente nacque a Bologna tra il febbraio e il marzo del 1545. I Tagliacozzi non hanno un’origine nobiliare ma sono abbastanza benestanti e vantano una buona posizione all’interno del ceto degli artigiani. Nel 1565 inizia i suoi studi di medicina presso l’università di Bologna, una delle più antiche e prestigiose. Ha ottimi insegnanti tra cui Girolamo Cardano, Ulisse Aldrovandi e Giulio Cesare Aranzi, quest’ultimo sarà colui che gli insegnerà le tecniche della chirurgia facciale.
La teoria da sola non serve, soprattutto quando parliamo di chirurgia. Le tecniche si imparano sul campo e Tagliacozzi fa pratica come assistente presso l’ospedale di S. Maria della morte, che deve il suo nome all’assistenza offerta ai carcerati e ai condannati a morte. Ed è lì che tra diagnosi, visite, farmaci, piccole operazioni chirurgiche e dissezioni, impara tutto quello che serve. Nel 1570 si laurea e nel giro di dieci anni la sua fama di medico cresce sempre di più. Diventa famoso negli ambienti nobiliari, soprattutto dopo aver curato una ferita al braccio del conte Paolo Emilio Boschetti. Da Bologna a Firenze, passando per Modena e Ferrara, Tagliacozzi è noto per essere un esperto di ricostruzioni facciali.
Per fare un paragone con l’attualità era una specie di chirurgo delle star. Nel 1583 una cortigiana viene sfigurata da un amante. L’aspetto estetico, allora come oggi, era importante. E chi meglio di Tagliacozzi per ricostruire il suo volto? L’anno dopo a Modena deve occuparsi di un altro sfregio.
Le sue tecniche, specialmente quelle di chirurgia facciale, sono ben descritte in una lettera che il chirurgo invia a Girolamo Mercuriale, allora professore di medicina a Padova ed esperto di malattie della pelle e rapporti tra bellezza e medicina. In questa lettera Tagliacozzi spiega per la prima volta come ricostruire le parti mutilate del volto, soprattutto i nasi.
Ma sono gli anni Novanta a far sì che il suo nome rimarrà per sempre impresso nella storia della medicina e della chirurgia in particolare. Nel 1594 viene invitato a Vienna da Ferdinando I de’ Medici per curare Virginio Orsini, nipote del granduca, ferito durante la guerra contro l’impero ottomano. Un altro paziente illustre è Vincenzo Gonzaga, duca di Mantova. Interpellato nel 1596 per un consulto, Tagliacozzi rimarrà presso la sua corte per molto tempo. Il duca, infatti, gli affida il compito di occuparsi dei suoi aspetti medico-cosmetici. Non sappiamo se il duca soffrisse di sifilide, o di qualche altra malattia della pelle, ma la sua malformazione al naso non poteva essere nascosta facilmente. Guardando i ritratti del tempo, ovviamente non notiamo questa malformazione, ma sappiamo che proprio Tagliacozzi, ormai diventato suo medico personale, avesse preparato un unguento speciale per nasconderla.
Sull’onda del successo presso le corti italiane, Tagliacozzi decide finalmente di dare alle stampe la sua opera più importante. Nel 1597, dieci anni dopo la lettera a Mercuriale, pubblica a Venezia presso Gaspare Bindoni la sua monografia in due volumi sulla chirurgia ricostruttiva del volto dal titolo: De curtorum chirurgia per insitionem.
Diversi addetti ai lavori lo considerano come il libro fondatore della chirurgia plastica. Dedicato al duca Vincenzo Gonzaga, il libro, arricchito da splendide illustrazioni, spiega perfettamente la sua tecnica per ricostruire un volto mutilato. La tecnica è quella descritta all’inizio dell’episodio. Tagliava un lembo di pelle dal braccio sinistro perché riteneva che qui ci fossero meno peli. Dopo aver avvicinato il braccio del paziente al volto, lo applicava sulla parte mutilata o scarnificata così da farlo ‘attecchire’. Una volta che l’innesto aveva preso, tagliava l’ultima parte di pelle legata al braccio per finire il suo lavoro. È grazie alle illustrazioni presenti nel libro, che trovate sul sito di In cerca di storie o sulla pagina Instagram del podcast (clicca qui), che abbiamo un’idea di come funzionasse. Vediamo quest’uomo praticamente incollato al suo bicipite. Non può ovviamente allontanare il braccio perché rischierebbe di strappare il lembo di pelle che dal suo arto va al naso. E pensare che il paziente doveva restare in questa posizione per tantissimo tempo.
Il libro diventa un best seller. In poco tempo la sua fama e il suo metodo travalicano i confini nazionali. Nel 1597 il libro viene persino pubblicato senza autorizzazione dall’editore e stampatore padovano Roberto Meietti. L’edizione di Meietti resta oggi rara e introvabile. In Germania l’opera di Tagliacozzi viene citata spesso nei trattati di chirurgia e troviamo un’edizione del libro stampata anche a Francoforte.
Cosa rese questo libro così di successo? Il suo merito è quello di aver riunito tutte le informazioni allora disponibili in un trattato medico erudito. Tagliacozzi non è infatti l’inventore di questo metodo. I primi casi di pazienti operati con queste tecniche, almeno in Europa, risalgono al XV secolo. In Italia, a Catania, Gustavo Branca e suo figlio Antonio utilizzavano questo metodo già nel 1400. A Tropea i fratelli Vianeo erano soliti utilizzarlo durante il Cinquecento. La fortuna di Tagliacozzi fu quella di cavalcare la moda del tempo. Il connubio medicina e bellezza era sempre più forte e l’aspetto esteriore era qualcosa da preservare e perché no migliorare. L’alta nobiltà, a causa di guerre, duelli e malattie, aveva bisogno della chirurgia estetica per difendere un certo status sociale. Va ricordato che la mutilazione del naso nell’antichità era un segno distintivo dei criminali condannati. Qualsiasi piccola imperfezione poteva creare un certo discredito nei confronti del ceto di appartenenza.
Ma perché si chiamava “metodo italiano”? Il nome fu coniato per distinguerlo dal “metodo indiano” inventato da Sushruta, un medico che visse tra il IX e l’VIII secolo a.C. in India. Rispetto al metodo italiano, utilizzava la pelle della fronte.
Due anni dopo la pubblicazione del De Curtorum, Tagliacozzi muore a Bologna all’età di 54 anni. Rispettando le sue ultime volontà, viene sepolto nella chiesa di S. Giovanni Battista (oggi non più esistente). Durante i funerali il suo collega Muzio Piacentini, per onorare la sua figura, utilizzò le stesse parole scritte da Pietro Bembo per l’epitaffio del pittore Raffaello Sanzio: “da lui, quando visse, la natura temette d’essere vinta, ora che egli è morto, teme di morire”.
La fama del chirurgo più famoso d’Europa rischiò però di essere infangata. Dopo la sua morte, iniziarono a circolare voci che lo accusavano di pratiche magiche ed eresia. La sua non era semplice medicina. I suoi metodi così miracolosi nascondevano qualcosa di soprannaturale. Nonostante la sua fama, si decise comunque di aprire un processo postumo e di spostare la sua salma dalla chiesa di S. Giovanni Battista in un terreno fuori le mura sconsacrato.
Quelle che circolavano si rivelarono alla fine solo delle voci. Maligne, messe in giro da invidiosi per screditare Tagliacozzi, come confermato dalla sentenza finale del processo. Fu questo evento, peraltro poco documentato nelle fonti, a creare la leggenda che Tagliacozzi fosse stato condannato dall’Inquisizione per eresia. In realtà i rapporti tra il chirurgo e la Chiesa erano ottimi. Non a caso lo stesso De Curtorum non sarebbe stato pubblicato senza l’avvallo della Chiesa che esaminava in modo meticoloso tutte le opere da inserire eventualmente nell’indice dei libri proibiti.
Siamo giunti al termine della nostra storia. Vi ringrazio per l’ascolto. Come sempre, sul sito http://www.incercadistorie.com, oltre alla trascrizione dell’episodio, vi lascio le fonti consultate. Se siete appassionati all’argomento vi consiglio il programma “Storia della medicina”, in onda su Rai storia. C’è un episodio dal titolo “La fabbrica del corpo. L’arte difficile della chirurgia” e tra i protagonisti c’è proprio Tagliacozzi.
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Vi ringrazio per l’attenzione e vi do appuntamento al prossimo episodio. Ciao!
Fonti per questo podcast
“Gaspare Tagliacozzi” – Enciclopedia Treccani
Tomba P, Viganò A, Ruggieri P, Gasbarrini A. Gaspare Tagliacozzi, pioneer of plastic surgery and the spread of his technique throughout Europe in “De Curtorum Chirurgia per Insitionem”. Eur Rev Med Pharmacol Sci. 2014;18(4):445-50. PMID: 24610608.
Mukherjee, Nayana Sharma, Susmita Basu Majudar, and Susmita Basu Majumdar. “A NOSE LOST AND HONOUR REGAINED: THE INDIAN METHOD OF RHINOPLASTY REVISITED.” Proceedings of the Indian History Congress 72 (2011): 968–77. http://www.jstor.org/stable/44146788.
Scorrendo i tabellini delle partite salta all’occhio una X nella lista dei titolari. No, non è un errore di stampa. È proprio così. Quella X è lì per un motivo. Perché il calciatore in questione, per via della sua fede politica, non può (e non deve) essere nominato. “Ci spiace, per ragioni particolari che riguardano l’interessato, dover tacere nell’elogio che rivolgiamo a tutta la squadra il nome del giuocatore che formò il trio mediano” scriveva il giornale Cremona Nuova il 9 dicembre 1924 riguardo la vittoria della Cremonese sul Legnano per 3-0.
Dietro quella X si nasconde Vittorio Staccione, calciatore e antifascista. Nel giorno delle celebrazioni per la Liberazione dal nazifascismo, la storia di un uomo che pagò con la vita la sua opposizione al regime.
Staccione nasce a Torino il 9 aprile 1904. Giovanissimo viene notato da Heinrich Bachmann, una delle stelle del Torino dei primi del Novecento. È proprio Bachmann che, colpito dalle qualità del ragazzo, lo fa entrare nelle giovanili granata. Il suo esordio in prima squadra avviene il 3 febbraio 1924. Deve ancora compiere 20 anni e il Torino pareggia 1-1 con l’Hellas Verona. Nella stagione 1923/24 disputa solo due partite. La stagione seguente passa in prestito alla Cremonese. Tracciare le sue prestazioni con la maglia grigiorossa è impossibile perché appunto il suo nome viene spesso sostituito da un X nei tabellini. Staccione, infatti, non è noto solo per le sue qualità in campo. La sua vita fuori dal rettangolo verde pesa come un macigno. È la sua fede politica a creargli non pochi problemi. Viene da una famiglia proletaria e si dichiara apertamente socialista. Nonostante il clima difficile, non mette mai da parte il suo impegno antifascista. Roberto Farinacci, il ras fascista di Cremona, lo ha segnalato come pericoloso sovversivo. Da lì l’ordine di oscurare il suo nome con una X. Ma il regime non si limita solo a censurarne il nome. Staccione è vittima di minacce e pestaggi.
Sul campo le cose vanno un po’ meglio. L’esperienza lombarda è piuttosto positiva ma non abbastanza da consentirgli, una volta tornato al Toro, di vestire sempre la maglia da titolare. Nella sua ultima stagione con la maglia granata, quella del primo scudetto della storia (titolo poi revocato per il caso Allemandi), dà il suo contributo alla vittoria finale giocando 12 partite tra campionato e Coppa Italia. La stagione 1926/27 è l’ultima con il Torino prima di passare alla Fiorentina che militava allora nella serie cadetta. Dietro il suo addio a malincuore ai colori granata si nasconde ancora una volta il regime. Il gerarca fascista di Torino fa pressioni sulla società affinché venga allontanato. Salta la partita di inaugurazione del Filadelfia nel 1926 perché “infortunato”. In realtà durante un pestaggio gli hanno rotto due costole.
Con la maglia biancorossa (il viola diverrà il colore ufficiale solo nel 1929) centra la promozione nella massima serie giocando 13 partite su 14. Di proprietà del marchese Ridolfi, la Fiorentina non allestisce una squadra all’altezza e il campionato finisce nel peggiore dei modi: ultimo posto e retrocessione. Staccione è quello con più presenze ma non basta. Nonostante la retrocessione decide di non lasciare la Fiorentina. Nel frattempo si è sposato con Giulia Vannetti e non vuole lasciare la Toscana. Per il campionato 1930/31 la società ha finalmente rinforzato l’organico. I Viola vincono il campionato di Serie B e il nome di Staccione appare in ben 24 partite. Il 1930 però è il suo anno nero. I successi sul campo non possono colmare il grande vuoto lasciato dalla scomparsa di sua moglie Giulia e di sua figlia Maria Luisa morte entrambe durante il parto.
La dolorosa perdita e l’ostracismo del regime influiscono sugli ultimi anni della sua carriera. Dopo la Fiorentina passa al Cosenza, club di terza serie. 77 presenze e tre stagioni con i calabresi prima di passare al Savoia di Torre Annunziata (dove durante un pestaggio gli spaccano un ginocchio ). La sua carriera finisce nel 1935 a soli 31 anni. Dice basta con il calcio e trova lavoro in fabbrica come operaio tornitore alla Fiat.
La persecuzione da parte del regime non si ferma. Arresti, pestaggi, licenziamenti, Staccione non si lascia intimorire. Difende le sue idee ed entra nell’orbita dell’antifascismo piemontese. Il mondo delle fabbriche è in subbuglio. Soprattutto dopo l’armistizio in molti manifestano il proprio dissenso nei confronti del regime. Staccione prende parte attivamente agli scioperi del 1 marzo 1944. Fu la sua ultima azione da uomo libero perché il 12 marzo, insieme a suo fratello Francesco, viene arrestato dalla polizia di Madonna di Campagna che lo consegna alle SS. Non fu uno dei promotori dello sciopero ma il suo nome e il trascorso politico bastarono per condannarlo.
In caserma gli autori dell’arresto, che conoscevano bene Staccione, provano a salvarlo come testimoniato dal racconto di suo nipote Federico Molinario: “La polizia gli comunicò che sarebbe stato deportato in un campo di concentramento tedesco e lo mandò a casa da solo a prepararsi per il viaggio. Chiunque al suo posto sarebbe fuggito, ma non lui. Il giorno stesso si presentò alle carceri Le Nuove con la valigia, consegnandosi ai nazisti. Questo dice tanto della natura di mio zio, e anche della sua piemontesità”.
Il 16 marzo sale sul treno numero 34 in partenza da Porta Nuova con destinazione Mauthausen. Arriva il 20 marzo. Una volta nel campo di concentramento viene classificato come Schutzhaftling, prigioniero politico. Da quel momento in poi sarà identificato solo da un triangolo rosso e un numero di matricola: 59160.
Incontra nei lager un avversario ai tempi del Torino: Ferdinando Valletti che all’epoca indossava la maglia del Milan. I due disputano anche alcune partite all’interno del lager contro le SS. Valletti riesce a salvarsi mentre Staccione, trasferito nel campo di Gusen, muore di setticemia e cancrena il 16 marzo 1945 forse a causa dei pestaggi da parte delle guardie. Suo fratello Francesco muore 11 giorni dopo. Il campo di Mauthausen sarebbe stato liberato solo un mese e mezzo più tardi il 5 maggio 1945.
Termina così la storia di Vittorio Staccione, il mediano che pagò con la vita la sua opposizione al regime fascista. Un esempio di coraggio e determinazione. Un uomo che non abbandonò mai le sue idee, neppure di fronte alla feroce violenza del regime.
Il 6 ottobre del 2012 il suo nome è stato inserito nella Hall of Fame della Fiorentina. Il 16 giugno del 2015, all’interno dello stadio Giovanni Zini di Cremona, gli è stata dedicata una lapide commemorativa. Sotto un’opera in bronzo che raffigura un pallone dietro un filo spinato un messaggio recita:
“Vittorio Staccione
Giocatore grigiorosso nella stagione 1924/1925
Morto a Gusen-Mauthausen il 16 marzo 1945
Simbolo dello sport come impegno sociale, civile e politico.
Lottò sui campi della vita
Per la libertà e la fratellanza degli uomini”
Fonti per questa storia:
“Il mediano di Mauthausen” di Francesco Veltri – Diarkos
“Vittorio Staccione: il mediano del Toro che ha sacrificato tutto per un’ideale” di Silvio Luciani – Toro News
“Cuori partigiani. La storia dei calciatori professionisti nella Resistenza italiana” di Edoardo Molinelli – Red Star Press
Tra una birra e l’altra, in quel di Southampton, Arthur racconta delle sue avventure nei mari. Tutte le sue storie hanno degli elementi in comune: una nave, un evento tragico e la sua enorme fortuna. Sì, Arthur è decisamente fortunato. In ben sei occasioni ha dato buca all’appuntamento con la morte. Quando le cose si mettono male, lui ne esce sempre sano e salvo. Ed è proprio questa sua particolarità a farlo passare alla storia come “il fuochista inaffondabile”.
Il 15 aprile si è celebrato un anniversario particolare: sono passati, infatti, 110 anni dall’affondamento del Titanic. Tra tutte le storie dei sopravvissuti quella che mi ha colpito di più è stata quella di Arthur John Priest.
Nasce a Southampton, in Inghilterra, il 31 agosto 1887. La sua famiglia è povera e i coniugi Priest devono tirar su ben dodici figli. Le difficili condizioni economiche lo spingono fin dalla tenera età a cercare un lavoro. A 24 anni, nel 1911, trova impiego come fuochista su un transatlantico. Si tratta della RMS Olympic, la nave gemella del RMSTitanic. La Olympic è un transatlantico all’avanguardia per quei tempi. Nelle sue viscere Arthur e i suoi compagni spalano ogni giorno tonnellate di carbone.
Il 20 settembre 1911, poco dopo la partenza, la Olympic viene speronata dal vecchio incrociatore HMSHawke della Royal Navy nelle acque del Solent causando uno squarcio nella poppa. Un incidente che costa caro dove perdono la vita circa 600 persone. I fuochisti, trovandosi nelle zone sottostanti, erano spesso quelli più in pericolo in simili circostanze. Restare intrappolati e morire annegati era molto frequente. Ma Arthur è fortunato e riesce a salvarsi.
Seppur tragico questo incidente non lo scoraggia. Un anno dopo riesce a farsi assumere per il viaggio inaugurale del Titanic. Sappiamo già cosa accadde. Nella notte tra il 14 e il 15 aprile 1912 morirono 1500 persone. La fortuna non abbandona Arthur. Nonostante le difficoltà nel salire sul ponte riesce a gettarsi in acqua e a raggiungere a nuoto, nelle acque gelide, con indosso solo la biancheria intima, la scialuppa di salvataggio numero 15. Incredibile. La maggior parte delle persone che provò a scappare dalla nave che affondava morì proprio di ipotermia.
Siamo a due disastri scampati. Anzi tre se consideriamo il piccolo incidente a bordo della Asturias nel 1908 quando il transatlantico si scontrò con un’altra imbarcazione nel suo viaggio inaugurale, ma per fortuna nessuno perse la vita.
Arthur è fortunato e tutte quelle avventure sui transatlantici lo rendono uno dei fuochisti più esperti a quel tempo. Per lui trovare lavoro su una nave non è difficile. Quattro anni dopo il Titanic, in piena prima guerra mondiale, viene arruolato sull’incrociatore mercantile armato HMSAlcantara. La guerra navale portata avanti dalla Germania non risparmia nessuno. Basti pensare all’affondamento del transatlantico RMSLusitania il 7 maggio 1915 ad opera di un sottomarino tedesco dove perdono la vita 1152 persone. L’Alcantara il 29 febbraio 1916 si trova al largo delle Shetland quando si scontra con l’incursore mercantile tedesco Greif, camuffato per l’occasione da mercantile norvegese. La feroce battaglia vede entrambe le navi colare a picco per i danni subiti. Muoiono 70 compagni di Arthur. Lui, ancora una volta, a nuoto nelle acque gelide, riesce a scampare alla morte.
La guerra non è ancora terminata ed Arthur ritorna a bordo di una nave. Dopo la Olympic e il Titanic, sceglie l’ultima nave gemella: la HMHSBritannic. Un transatlantico più grande del Titanic convertito in nave ospedale per trasportare i feriti. Non vi meraviglierete nel sapere che il 21 novembre 1916, nelle acque del mar Egeo, la Britannic affonda. Non si sa bene se per colpa di un siluro o di una mina, ma arriva la fine anche per l’ultima delle tre sorelle. Anche se si tratta della più grande nave persa durante la prima guerra mondiale, la concomitanza di diversi fattori ridusse considerevolmente il numero dei decessi. La temperatura dell’acqua, la presenza di diverse scialuppe di salvataggio e l’assenza di nemici nelle vicinanze, limitò il numero di morti a una trentina. Arthur ovviamente non era tra quelli.
Il 17 aprile del 1917 si trova su un’altra nave ospedale, il SSDonegal, che trasporta le truppe ferite dalla Francia. Nel Canale della Manica viene silurata da un U-Boot tedesco. 40 persone muoiono. Arthur riporta solo una ferita alla testa. Forse spaventato dal trauma o temendo che la sua dose di fortuna fosse finita decide di non mettere più piede su una nave. Morirà nel suo letto a Southampton nel 1937 di polmonite. I giornali dell’epoca lo avevano sopranominato “Il fuochista inaffondabile”. È sorprendente scoprire come ogni volta si trovasse sempre nella parte più danneggiata o pericolosa delle navi ma fu sempre in grado di scappare e sopravvivere. Iceberg, siluri, mine, incidenti, Arthur ne uscì sempre indenne.
Le sue ossa riposano nel cimitero di Hollybrook a Southampton. Una sepoltura anonima che stride molto con la sua storia. Una storia di coraggio e fortuna. La storia del “fuochista inaffondabile” sopravvissuto a sei disastri navali.