Questo museo era sulla mia lista di posti da visitare da molto tempo. Appassionato fin da piccolo dell’Antico Egitto ho finalmente visitato il Museo Egizio di Torino. Il più antico museo al mondo dedicato a questa civiltà.
Fondato nel 1824, si sviluppa su quattro piani e conserva oltre 40.000 reperti. Tra questi: 24 mummie umane, 219 tra mummie e sarcofagi di animali e il famoso Papiro di Luefankh, lungo quasi 1847 cm che contiene il “Libro dei Morti”, una raccolta di formule per la guida, la protezione e la resurrezione del defunto nell’aldilà.
Se non avete avuto la possibilità di visitarlo, potete farvi un’idea della maestosità di questo museo attraverso il mio video e le foto.
La prima volta che vidi l’Armeria Reale fu in un documentario presentato dal prof. Alessandro Barbero. Finalmente ho avuto la possibilità di visitarla e posso confermare che dal vivo è ancora più suggestiva. I Musei Reali sono una tappa obbligata se siete a Torino. Sono in pieno centro e con un unico biglietto potete visitare un complesso che comprende: il Palazzo Reale, l’Armeria Reale, la Biblioteca Reale, la Galleria Sabauda, il Museo di Antichità e i Giardini Reali. Un museo immenso che custodisce 400.000 opere distribuite su circa 25.000 m2 di esposizione con oggetti che vanno dalla Preistoria all’età moderna.
Risalgono al 1563 quando Emanuele Filiberto di Savoia trasferisce la capitale del ducato da Chambéry a Torino e decide di arricchire le collezioni dinastiche. Nell’Armeria Reale noterete, forse più che in altri luoghi, oggetti provenienti dai posti più disparati del pianeta, nonché risalenti a secoli tanto lontani tra loro.
È un complesso museale che soddisfa diversi interessi. Se siete amanti dell’arte, la Galleria Sabauda fa al caso vostro. Se siete amanti della storia, che dire, c’è l’imbarazzo della scelta. Il Museo di Antichità, ad esempio, custodisce statue greche e romane, rilievi scolpiti e busti marmorei, ed ha la raccolta più ricca in Italia di testi cuneiformi e sigilli a cilindro. Da non perdere il Tesoro di Marengo con oggetti datati tra il II e il III secolo d.C. tra cui spicca il busto dell’imperatore Lucio Vero (lo trovate nelle foto in basso). Il ritratto, probabilmente realizzato prima della sua morte (169 d.C.), è così fedele che possiamo notare la sua fisionomia e le irregolarità: occhi asimmetrici un po’ strabici e naso aquilino. Si dice che per accentuare il biondo dei suoi capelli fosse solito cospargerli di pagliuzze d’oro. La lamina d’argento utilizzata per realizzare il busto, però, non ci aiuta a capire se fosse davvero così. Oltre al video vi lascio qualche foto scattata durante la visita.
Un consiglio per la visita: occhio all’orario di chiusura della Biblioteca Reale. Purtroppo quando ho visitato i Musei Reali era troppo tardi e la Biblioteca era già chiusa. Un motivo in più per tornare e visitare questo splendido museo.
Era solo un’idea, un modo per dare sfogo alle mie passioni. Ed eccomi qui a celebrare due anni del podcast In cerca di storie. Grazie a tutti coloro che decidono di passare il loro tempo, il bene più prezioso che abbiamo, a leggere o ascoltare le mie storie. Un grazie a chi mi segue su Instagram e su YouTube; alla community di WordPress che cresce con il tempo e non fa mai mancare il proprio supporto. Senza di voi questo progetto non sarebbe possibile.
Ci sono tante altre storie che voglio raccontarvi. Ho in cantiere nuovi progetti e perché no anche contenuti diversi dal “semplice” podcast. Da un po’ di tempo propongo anche video e visto l’ottimo riscontro ho deciso che continuerò ad affiancarli alle storie.
Continuate a supportare il podcast lasciando un like o condividendo i miei contenuti. Grazie e alla prossima storia!
Verde. Bianco. Rosso. Pronunciare questi tre colori ci richiama alla memoria la bandiera italiana. Dal 1996, ogni 7 gennaio, si celebra la Festa nazionale del Tricolore. Una festa nata in occasione dei 200 anni dalla creazione e adozione di quella che poi divenne la bandiera italiana da parte della Repubblica Cispadana, una delle prime Repubbliche sorelle dell’Italia settentrionale sotto il dominio francese.
LA NASCITA DEL TRICOLORE Il Congresso della Repubblica Cispadana, nata nel 1796 durante la Campagna d’Italia condotta dal generale Bonaparte, decise in modo unanime di adottare il vessillo tricolore. La proposta fu avanzata dal letterato illuminista e sacerdote Giuseppe Compagnoni, passato alla storia come il “padre del tricolore”. I tre colori scelti erano il verde, il bianco e il rosso, disposti orizzontalmente. Al centro campeggiava lo stemma con le 4 frecce rappresentanti i territori della repubblica.
I COLORI I colori si ispiravano a quelli della bandiera francese e richiamavano gli ideali della Rivoluzione francese. Il blu fu sostituito con il verde, simbolo dei diritti naturali di uguaglianza. Il motto della stessa Repubblica Cispadana recitava: “Libertà. Eguaglianza. Una e indivisibile”.
SIMBOLO IDENTITARIO Il vessillo tricolore divenne così il simbolo in cui si identificarono i patrioti italiani in lotta per l’indipendenza del Paese. Durante il Risorgimento, infatti, divenne la bandiera del Regno di Sardegna e di tutti quei territori che unendosi durante le Guerre d’Indipendenza diedero vita al territorio nazionale. Il Regno di Sardegna incominciò ad utilizzarla ufficialmente nel 1848. Al centro del tricolore, lo stemma dei Savoia. Questa bandiera ‘resistette’ per circa 100 anni.
L’ATTUALE BANDIERA Il tricolore come lo conosciamo oggi nacque solo dopo la Seconda guerra mondiale. Il 24 marzo 1947, infatti, la neonata Repubblica Italiana rimuoveva il simbolo dei Savoia dalla bandiera e proclamava nell’articolo 12 della Costituzione il seguente articolo: «La bandiera della Repubblica è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni.»
CURIOSITÀ Per esporre la bandiera italiana occorre seguire alcune regole specifiche. Sul sito del Governo Italiano leggiamo che le bandiere devono essere esposte «in buono stato e correttamente dispiegate; né su di esse, né sull’asta che le reca, si applicano figure scritte o lettere di alcun tipo. Su ciascuna asta si espone una sola bandiera. Ogni ente designa i responsabili alla verifica della esposizione corretta delle bandiere all’esterno e all’interno. I rappresentanti del Governo nelle province vigilano sull’adempimento delle norme sulla esposizione delle bandiere. Sono fatte salve le disposizioni particolari riguardanti le bandiere militari e di altri corpi ed organizzazioni dello Stato, nonché le regole, anche consuetudinarie, del cerimoniale militare e di quello internazionale.» In caso la bandiera nazionale fosse accompagnata da altre bandiere, per esempio quella europea, occorre rispettare un ordine: «1. La bandiera nazionale e quella europea, di uguali dimensioni e materiale, sono esposte affiancate su aste o pennoni posti alla stessa altezza. 2. La bandiera nazionale è alzata per prima ed ammainata per ultima ed occupa il posto d’onore, a destra ovvero, qualora siano esposte bandiere in numero dispari, al centro. Ove siano disponibili tre pennoni fissi e le bandiere da esporre siano due, è lasciato libero il pennone centrale. 3. La bandiera europea anche nelle esposizioni plurime occupa la seconda posizione.»
Da circa 140 anni si affaccia sulle rive del Po. A guardarlo da fuori, sembra un vero e proprio borgo medioevale. Non appena entrate vi sembrerà di fare un viaggio nel tempo. Sto parlando del borgo medioevale di Torino che si trova all’interno del parco del Valentino.
Nato nel 1884 come Sezione di Arte Antica dell’Esposizione Generale Italiana, è il frutto del lavoro di una commissione di storici, letterati, architetti e pittori diretta dal facoltoso portoghese studioso dell’architettura italiana Alfredo D’Andrade. Il progetto, in linea con la moda di fine Ottocento, aveva un obiettivo ambizioso: ricostruire fedelmente lo stile e l’atmosfera di un borgo del XV secolo che racchiudesse al suo interno i tratti tipici di un territorio come la Valle d’Aosta e il Piemonte.
Un obiettivo ampiamente centrato. Grazie all’utilizzo di modelli del tempo, è stato realizzato in modo così fedele da sembrare vero. Dalla Bottega del ferro battuto alla Stamperia, sembra che il tempo si sia fermato. Il 27 aprile 1884 venne inaugurato alla presenza dei sovrani d’Italia, Umberto e Margherita di Savoia. Il suo destino era segnato. Infatti il progetto iniziale prevedeva la sua distruzione al termine dell’Esposizione. Cosa che per fortuna non avvenne, in quanto il Borgo fin da subito attrasse numerosi turisti e visitatori. È entrato a far parte così dei Musei Civici della Città ed è sempre aperto.
È la vigilia di Natale del 1955. Il colonnello dell’Air Force Harry Shoup si trova nel suo ufficio nella sede del Comando di difesa aerea continentale (CONAD) in Colorado. Il telefono sulla sua scrivania squilla all’improvviso. Siamo in piena guerra fredda e se quel telefono squilla, vuol dire allora che è successo qualcosa di grave. L’unico ad avere il numero di quell’ufficio è un generale stellato del Pentagono.
Alza la cornetta e con voce decisa scandisce il suo nome: “Colonnello Harry Shoup”. Dall’altra parte silenzio. Passa qualche secondo e una vocina innocente chiede: “Sei tu Babbo Natale?”. Shoup sorpreso pensa sia uno scherzo, di cattivo gusto se consideriamo che quel numero dovrebbe essere utilizzato solo per annunciare eventuali attacchi aerei sul suolo statunitense. Ma dopo un po’ sente il bambino piangere. È allora che capisce che non è uno scherzo. Prova a stare al gioco e dice che sì, lui è Babbo Natale, e chiede al bambino se è stato buono per Natale. Allo stesso tempo chiede di parlare con sua madre la quale prontamente gli dice che sul giornale locale c’è un annuncio pubblicato dalla Sears Roebuck & Co. che suona più o meno così: “Bambini! Chiamatemi direttamente al mio numero natalizio. Chiamatemi al mio numero privato, che sia giorno o notte, risponderò personalmente”.
Ora immaginiamo un bambino che il giorno della vigilia scopre di poter parlare direttamente con Babbo Natale. Un sogno. E il colonnello non ha nessuna intenzione di infrangerlo. Si rende conto però che lì, sul giornale locale, svetta in bella mostra il suo numero di telefono segreto. O meglio un tempo segreto perché da quel momento i bambini non smettono di chiamare per parlare con Santa Claus.
Il colonnello ha un’idea. Assegna un ufficiale di servizio per rispondere a quelle chiamate e dire dove si trova in quel preciso momento Santa Claus. Dal 1958, quando il Comando di difesa aerea continentale si trasforma nel NORAD, (North American Aerospace Defense Command), ha inizio una tradizione che dura ancora tutt’oggi. Al tracciamento degli aerei per individuare una eventuale minaccia nemica, si affianca ora quello della slitta di Babbo Natale. Da allora, infatti, è possibile attraverso il sito del NORAD seguire le sue tracce.
E come accadde in quella vigilia di Natale del 1955, ogni anno la linea telefonica del NORAD è intasata di telefonate. Circa centomila chiamate di bambini che vogliono sapere solo una cosa: dov’è Babbo Natale?
Ed è così che da un errore tipografico nasce una storia di Natale e una traduzione lunga 67 anni. Harry Shoup passerà alla storia come il “Colonnello di Babbo Natale”.
Vi è mai capitato di passeggiare in un parco ed imbattervi in un sottomarino? Sì, lo so, suona strano, ma nel Parco del Valentino a Torino può accadere. Costeggiando il Po noterete questo sottomarino. In realtà si tratta della sezione centrale del sommergibile “Andrea Provana”, custodito nella sede dell’A.N.M.I. (l’Associazione Nazionale Marinai d’Italia) dedicata alla Medaglia d’oro Umberto Grosso.
Il sommergibile prende il nome dall’ammiraglio Andrea II Provana di Leynì che nel 1571 condusse la flotta sabauda nella battaglia di Lepanto contro l’Impero ottomano. Fu realizzato nel settembre del 1918 e non prese mai parte ad azioni belliche. Nel 1920 fu assegnato all’Accademia Navale di Livorno ed impiegato nell’addestramento degli allievi. Tre anni dopo fu impiegato di retroguardia durante la crisi di Corfù tra Grecia e Italia per difendere la flotta italiana da un eventuale contrattacco dei greci.
La sua breve vita si conclude il 30 marzo 1927. Mentre il sommergibile si trovava a Portoferraio (LI) ci fu uno scoppio causato dal motore diesel di dritta. L’incidente, che causò il ferimento di 6 uomini, ne decretò la sua fine. Trainato a La Spezia non fu neanche riparato. Ormai obsoleto, fu demolito e la sezione centrale fu messa in mostra durante l’esposizione mondiale del 1928 a Torino. Nel 1933 fu comprato dall’A.N.M.I. e collocato dove si trova ancora oggi.
Grazie agli sforzi dell’associazione, questo reperto storico-navale è tenuto in condizioni perfette seppur sia passato un secolo dalla sua realizzazione. Ho avuto il piacere di visitarlo ed al suo interno è ancora possibile ammirare la cabina di comando e la piccola cella dove riposava il comandante. Come potete vedere dalle foto, stupisce la sua tecnologia rudimentale.
Il sottomarino è possibile visitarlo previa prenotazione. Ve lo consiglio se passate da Torino.
Un grazie infinito all’A.N.M.I. di Torino per avermi permesso di visitarlo e per la loro disponibilità nel raccontarmi la sua storia.
2 dicembre 1943. Porto di Bari. Ore 19.30. È una bella serata e il cielo è limpido. Non si dovrebbe lavorare con il buio, ma gli Alleati non vogliono perdere tempo. Nel porto ci sono almeno 40 navi, cariche di carburante e bombe. Alla luce delle fotoelettriche si lavora senza sosta per scaricarle. Improvvisamente si sente il rumore di un aereo e poi un’esplosione. Una pioggia di bombe che dura appena venti minuti. Un fragore immenso fa da preludio all’inferno. Le fiamme inghiottiscono tutto e tutti. Anche il mare brucia. Nessuno immagina che questo passerà alla storia come il più grande disastro navale americano dopo Pearl Harbor.
Benvenuti a tutti, sono Stefano Frau e questo è In cerca di Storie, il podcast che va alla ricerca di storie o personaggi dimenticati o poco conosciuti.
La storia che vi racconto in questo episodio contiene diversi elementi: segreti, negligenze, censura, tragedie e misteri. Per capire cosa accadde quella sera occorre analizzare ognuno di questi elementi. Di solito lo faccio alla fine di ogni episodio, ma questa volta voglio dirvi in anticipo quali fonti ho utilizzato per ricostruire quanto avvenuto. Due libri: “Veleni di Stato” di Gianluca Di Feo edito da Rizzoli e “Inferno su Bari. Bombe e contaminazione chimica. 1943-1945” di Vito Antonio Leuzzi edito da Edizioni Dal Sud. E poi un documentario che trovate su Rai storia di Fabio Toncelli basato su soggetto e ricerche storiche originali di Francesco Morra dal titolo “2 Dicembre 1943. Inferno sulla città”. Strumenti alla mano siamo pronti per ricostruire la vicenda.
Siamo agli inizi di dicembre del 1943. Gli Alleati stanno lentamente liberando l’Italia. La Puglia è un punto strategico. È qui che stanno ammassando infatti numerosi velivoli e bombe per sferrare da sud l’attacco decisivo alla Germania nazista e distruggerne il sistema industriale. La 15ma Air Force con oltre mille tra quadrimotori e caccia prende forma. Ma per attaccare servono due cose fondamentali: carburante e bombe. Non possono essere trasportate per via aerea, sarebbe troppo pericoloso. Il porto di Bari diviene così lo scalo perfetto per scaricare queste merci che arrivano spesso direttamente dagli Stati Uniti d’America. Il porto di Bari, a differenza di quello Napoli, non ha subito ingenti danni durante i bombardamenti alleati e insieme a quello di Taranto sono gli unici approdi in grado di gestire grandi movimenti di merci.
È per questo motivo che nel porto, quel 2 dicembre 1943, ci sono così tante navi. Immaginate decine di migliaia di tonnellate di tritolo e petrolio concentrate in uno spazio circoscritto. È qui che entra in scena il primo elemento: la negligenza.
Potrebbe sembrare assurdo, ma nonostante la presenza massiccia di ordigni e carburante, nonché il numero considerevole di navi, c’è qualcuno che ha trascurato volontariamente l’aspetto difensivo del porto. Presi dalla fretta di sconfiggere Hitler, gli Alleati ignorano diverse precauzioni. I mezzi della contraerea sono contenuti. I radar presenti, pochi, non sono neanche in grado di localizzare in tempo una eventuale minaccia aerea. Nessuno si sarebbe mai aspettato un attacco tedesco sul porto. La Luftwaffe, a detta degli Alleati, era stata sconfitta. Arthur Coningham, comandante della prima forza tattica della Raf, aveva detto: “Lo prenderei come un affronto personale se le squadriglie tedesche dovessero riuscire a realizzare un attacco”.
A questo aggiungiamo anche la decisione scellerata di lavorare di notte. Il porto è, infatti, illuminato a giorno dalle fotoelettriche. A terra, infiltrati tra i marinai e gli ufficiali, ci sono le spie tedesche che hanno fatto rapporto da tempo sugli strani movimenti al porto.
La Luftwaffe non era stata annientata come tutti credevano. Un mese prima, il 6 novembre, l’aviazione tedesca aveva attaccato le città pugliesi di Canosa e Molfetta. Diversi morti tra i civili ma si era trattato di un bombardamento strategico per testare la reazione difensiva degli Alleati.
L’occasione ora è troppo ghiotta per farsela scappare. Immaginate la scena: migliaia di tonnellate di munizioni e carburante ammassate e quasi incustodite, perché i mezzi della contraerea come abbiamo detto sono quelli che sono. Per giunta, a facilitare il tutto, le navi sono concentrate in uno spazio ristretto ed illuminate in modo perfetto. Il maresciallo tedesco Albert Kesserling sa che non deve perdere questa occasione. È una disattenzione che non ricapita spesso.
Quella sera un aereo ricognitore tedesco sorvola il porto indisturbato. Secondo il suo rapporto ci sono 40 navi. Kesserling dà l’ordine di attaccare. Alle 19.30 105 Junker Ju 88 raggiungono il porto. Prima di sganciare il carico di bombe, rilasciano le Düppel, delle strisce di materiale radar-riflettente in grado appunto di confondere i radar. Il cielo è limpido e per alcuni testimoni, quelle striscioline che cadono sembrano tante stelle cadenti. Non sanno che è solo l’inizio di un incubo. In venti minuti i 105 bombardieri tedeschi scaricano le bombe sul porto. L’inferno ha inizio.
In un effetto domino i mercantili esplodono uno dopo l’altro. Le navi cariche di tritolo e idrocarburi saltano in aria sparpagliando ovunque rottami incandescenti, barili, camion, cannoni e uomini. Alcune testimonianze di chi vide con i propri occhi quell’inferno. Roxanne Pitt, agente dell’Intelligence inglese racconta: “E d’un tratto un fragore spaventoso simile allo scoppio simultaneo di mille tuoni, squarciò l’aria, seguito da una serie di esplosioni minori”. Un altro testimone, Gennaro Dammacco: “Con grande stupore vidi il mare in fiamme. Non capivo, ero meravigliato, non mi rendevo conto che il mare potesse bruciare”. Durante il bombardamento, infatti, le condotte per succhiare il carburante dalle cisterne erano saltate riversando petrolio e nafta nella rada. Anche l’acqua prende fuoco. Per i naufraghi non c’è scampo. Brucia tutto, la terra, il mare, le persone.
Alcuni mercantili rompono gli ormeggi e vanno alla deriva. Almeno 17 navi colano a picco: due polacche, tre italiane, tre norvegesi, quattro inglesi e cinque liberty da carico degli Stati Uniti. 8 vengono semidistrutte. L’esplosione è così potente che alcune navi pesanti centinaia di tonnellate sono state sbalzate in aria ad una altezza di venti metri. L’esplosione ha investito anche la città vecchia scoperchiando le case e incendiando le abitazioni. L’onda d’urto ha frantumato i vetri nel giro di 12 chilometri. In un mare melmoso a causa del petrolio galleggiano rottami e pezzi di cadavere. Una scena apocalittica che dura giorni. La nuvola di fumo è così enorme da oscurare il sole. L’unica nota positiva è che il vento cambia direzione in quei giorni spingendo la nube tossica al largo.
Pompieri e soccorritori in modo eroico tentano di salvare quante più vite possibili, ma c’è qualcosa di strano. Nell’aria e sui corpi dei superstiti. In molti avvertono un odore di aglio. Sembra strano, perché mai avrebbero dovuto portare una nave carica di aglio nel porto? Ci sono poi degli strani segni sui corpi delle vittime e dei superstiti. Inizialmente si crede siano dovuti alle ustioni provocate dall’esplosione, ma con il passare del tempo la situazione degenera.
Ci troviamo così a parlare del secondo elemento: il mistero. I soccorritori e i superstiti hanno difficoltà respiratorie e riescono a tenere a malapena gli occhi aperti. Lacrimano incessantemente. I corpi, poi, iniziano a ricoprirsi di vesciche. Se al porto la situazione è fuori controllo, negli ospedali dove sono arrivati i primi feriti non è che vada meglio. Anzi. Nelle corsie dell’ospedale alcuni feriti in buone condizioni muoiono improvvisamente. C’è qualcosa che non quadra. I sospetti si fanno sempre più concreti. C’è qualcuno che si domanda se quella puzza di aglio sia connessa con quelle morti.
Alle navi superstiti viene dato l’ordine di allontanarsi dal molo. Il cacciatorpediniere Bistera che fa rotta verso Taranto salva 30 naufraghi. Durante il tragitto molti marinai incominciano ad accusare strani effetti collaterali. Ancora una volta occhi che bruciano e difficoltà respiratorie. In poco tempo nessuno sulla nave è in grado di vedere. Sono costretti a lanciare l’SOS e una motovedetta deve arrivare in soccorso.
Trattandosi di navi cariche di bombe, c’è qualcuno, come il dottor Denfeld, che domanda se ci fossero su quelle navi anche testate all’iprite o comunque gas tossici. La risposta del comando generale britannico è laconica: no, nessun gas tossico.
In realtà, ed è qui che passiamo al prossimo elemento, il segreto, su quelle navi c’era qualcosa di tossico ma erano davvero in pochi a saperlo. C’è una nave in particolare, la John Harvey, che cela un carico top secret. Arriva direttamente dagli Stati Uniti e prima di approdare a Bari è passata dal porto algerino di Orano e poi dalla Sicilia. Nel suo manifesto di carico si legge un codice ‘HS’ che significa solo una cosa: gas mostarda, ossia iprite. Un gas altamente tossico e mortale utilizzato già nella prima guerra mondiale dai tedeschi. Fu utilizzato per la prima volta nella città belga di Ypres, da qui il nome. Viene detto mostarda per via del suo odore. Sulla Harvey ci sono circa 100 tonnellate di iprite. Una delle tante anomalie di questa storia è che la Harvey, nonostante il suo carico altamente pericoloso, viene etichettata come “nave a bassa priorità”, questo vuol dire che può essere ormeggiata in qualsiasi zona del porto di Bari.
Sembra che anche la Lyman Abbott avesse lo stesso carico perché dopo l’attacco i marinai indossarono subito le maschere antigas e i testimoni udirono urlare la parola gas. Secondo le stime oltre mille tonnellate di iprite vengono rilasciate nel golfo di Bari.
Ecco spiegate quelle strane morti. I corpi dilaniati dalle ustioni, le vesciche, gli occhi che lacrimano e i problemi respiratori sono dovuti proprio a quel gas. Il problema però è che a terra nessuno lo sa e non lo deve sapere. Solo il comandante britannico del porto, il capitano e la scorta sono a conoscenza del carico ma deve rimanere tutto top secret. Negli ospedali i medici, non sapendo di avere a che fare con gli effetti del gas mostarda, non curano in modo appropriato i pazienti. I loro indumenti, intrisi di nafta e iprite, non vengono rimossi e i loro corpi non vengono lavati lasciando al gas tutto il tempo necessario per mangiarli lentamente ed ucciderli. Come detto in precedenza, i superstiti parlano di odore di aglio, non di mostarda. Secondo alcuni studiosi, molto probabilmente l’iprite mescolandosi alla nafta o all’arsenico aveva assunto un odore diverso. Ma c’è anche chi sostiene che quell’odore sia dovuto al fatto che l’iprite era stata mescolata con un altro composto altamente letale creato in laboratorio negli Stati Uniti: la lewisite, un composto chimico che attacca i polmoni causando avvelenamento.
L’iprite ha una caratteristica: è un gas che uccide lentamente. A distanza di giorni e perfino di anni. Le morti misteriose a Bari si susseguono fino alla metà di dicembre. Da lì in poi, tra la popolazione, aumentano in modo vertiginoso casi di cancro alla pelle, ai polmoni, alla laringe, alla vescica e alla prostata. Numerose persone anni dopo quel disastro scoprono di soffrire di malattie neurologiche, leucemie, diabeti e disturbi del sistema immunitario. L’iprite, è bene ricordarlo, è in grado di alterare la riproduzione del DNA.
Per questo motivo è impossibile avere un chiaro bilancio delle vittime di quel disastro. All’incirca tra militari e civili muoiono subito 2000 persone. Solo a Bari secondo i resoconti degli americani gli avvelenati sono 628. Il 34% degli intossicati perde la vita. Una percentuale alta giustificata dal fatto che l’iprite fosse stata combinata con la lewisite. L’equipaggio della John Harvey, la nave che trasportava il grosso di quel carico di morte, non esiste più, incenerito dall’esplosione.
Ma perché non si può parlare di iprite? Perché gli Alleati tengono nascosto questo elemento? Per capirlo occorre fare qualche passo indietro, precisamente al 1925. Il 17 giugno a Ginevra viene firmato il protocollo, entrato poi in vigore tre anni dopo, che vieta l’uso a fini bellici di gas asfissianti e/o velenosi. Gli effetti delle armi chimiche utilizzate durante la prima guerra mondiale spingono diversi paesi a firmare questo trattato. Tra questi ci sono la Germania, l’Italia, il Regno Unito e gli Stati Uniti d’America. Ma se gli Alleati firmarono questo protocollo, perché allora avevano trasportato e ammassato così tante bombe all’iprite nel porto di Bari?
Tecnicamente il protocollo vieta l’utilizzo ma non la produzione. Per gli Alleati rappresentano un deterrente nei confronti di Hitler. Nel protocollo poi c’è la cosiddetta “clausola di reciprocità”, ossia se uno stato firmatario del protocollo utilizza le armi chimiche, le altre nazioni secondo il ‘diritto di rappresaglia’ possono a loro volta utilizzarle. Il problema però è che gli Alleati temono che se la notizia di Bari e della presenza di armi chimiche venisse divulgata, Hitler potrebbe usarla come pretesto. In effetti per la propaganda, i cattivi disposti ad utilizzare armi non convenzionali sarebbero proprio i democratici Alleati liberatori e non la Germania nazista. Pensiamo anche che gli americani stanno ammassando nuove armi chimiche, infatti la lewisite proviene proprio dai loro laboratori. È per questo motivo che viene proibito categoricamente di parlare di iprite. Su ordine di Churchill, la censura si abbatte anche sulla stampa. Le cartelle cliniche dei pazienti vengono manomesse. I danni provocati al corpo sono da ricondurre ad “azione nemica”. Insomma, la colpa è solo dei tedeschi.
Ricordate il medico Denfeld? Alla fine riesce ad ottenere con tanta insistenza la testimonianza di un sergente americano che soffre degli stessi disturbi provocati dal gas il quale afferma che l’esercito sta accatastando bombe all’iprite nel sud Italia. Nel frattempo la notizia del disastro chimico è arrivata in nord Africa dove si trova il generale Dwight Eisenhower. Qui accade un’altra cosa singolare. Gli americani, infatti, vedono il disastro di Bari come un’opportunità per studiare finalmente gli effetti del gas mostarda sul corpo umano. Non c’era mai stata la possibilità di studiare con strumenti moderni gli effetti di un attacco chimico. I pochi studi risalivano alla prima guerra mondiale. Così Eisenhower ordina al tenente colonnello Stewart Alexander, specializzato nella ricerca sulle armi chimiche, di andare a Bari per salvare i feriti e realizzare un’istruttoria scientifica. Le fonti sono un po’ ambigue, perché c’è chi asserisce che Stewart non sapesse nulla dell’iprite a Bari e chi invece sostiene il contrario. Ma Stewart non ha bisogno di molto tempo per capirlo: passeggiando per le corsie del Policlinico riconosce subito l’odore tipico del gas mostarda e i segni sui corpi delle vittime sono inequivocabili.
Finalmente i pazienti possono essere curati con strumenti e medicine idonee per un attacco chimico. Le cure, purtroppo, sono destinate solo ai militari e ad alcuni cittadini privilegiati. Ai soldati, inoltre, non viene detto che quelle cure sono necessarie perché sono stati vittime di un attacco chimico. Come detto in precedenza, la censura proibisce le parole gas, attacco chimico e iprite. Ai medici britannici viene ordinato di scrivere nei referti come causa di quei segni sul corpo: “Dermatite non ancora determinata”. Quei militari erano allo stesso tempo vittime e cavie. Bastava dire la parola “Bari” per essere subito schedati e inseriti in un dossier top secret. Gli inglesi nascondono le cartelle cliniche di 85 feriti, dei quali 29 deceduti. George Southern, cannoniere sul cacciatorpediniere HMS Zetland, era tra i feriti. Solo nel 1976 gli dissero dell’iprite. I primi risarcimenti per i soldati avvengono solo negli anni Ottanta. Le prime notizie di armi chimiche a Bari trapelano negli U.S.A. solo nel 1959 quando viene desegretata parzialmente la relazione di Alexander. A metà anni Novanta i soldati ebbero degli indennizzi dal Pentagono. Il riconoscimento definitivo dei danni risale al 2005.
Se il numero delle vittime resta ancora un mistero, anche quello delle bombe presenti nel porto quella notte del 2 dicembre 1943 non è chiaro. I resoconti di quell’anno riportano 2000 bombe. Secondo i rapporti britannici del 1944 c’erano 5000 tonnellate di bombe, di cui 540 con carica a iprite e altre al fosforo bianco. In un rapporto del 1997 dell’ICRAM, oggi noto con la sigla ISPRA (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) i palombari italiani recuperarono 15.116 bombe con aggressivi chimici dal fondale. Si trattava della pulizia effettuata nel 1947 dalla Marina militare italiana. Un recupero avvenuto tre anni dopo quello inglese nella primavera del 1944. Questo per dare un’idea dell’immensa quantità di ordigni presenti quel giorno nel porto.
La presenza degli ordigni sul fondale marino è un altro capitolo triste di questa storia perché ancora oggi, nonostante le varie bonifiche, i pescatori si imbattono spesso in ordigni della seconda guerra mondiale. Spesso queste bombe a causa dell’usura dell’involucro rilasciano il loro contenuto. Non è un caso che i livelli di iprite e arsenico in alcune zone marine siano più alti.
La combinazione di tutti questi elementi ha reso l’attacco al porto di Bari il più grande disastro della marina statunitense dopo Pearl Harbor. Il silenzio che avvolse questa tragedia è durato per anni. Per Bari, purtroppo, non fu l’ultima volta. Il 9 aprile 1945 il porto pugliese fu teatro di un altro disastro: l’esplosione della nave Henderson. Uno dei maggiori disastri della guerra nel mar Mediterraneo. 317 civili morirono. Si registrarono danni e crolli anche alla basilica e alla cattedrale.
Pochi giorni prima del disastro di Bari del 1943, il presidente americano Franklin Delano Roosevelt in un discorso pubblico aveva detto: “Proverei disgusto nel credere che qualunque nazione, anche i nostri attuali nemici, possano anche solo pensare di volere gettare sul genere umano armi così terribili e disumane. L’uso di simili armi è stato dichiarato fuorilegge dalla convinzione comune di tutti i popoli civilizzati. Questo Paese non le ha usate. E io dichiaro categoricamente che non le utilizzeremo mai, in nessuna circostanza, finché non verranno impiegate dai nostri nemici”.
Si conclude qui l’episodio di quest’oggi. Se vi è piaciuta questa storia fatemelo sapere nei commenti. Come sempre sul sito http://www.incercadistorie.com trovate le trascrizioni e le fonti. Non dimenticatevi di seguirmi su YouTube e Instagram. Per supportare il podcast condividete l’episodio. Vi ringrazio per l’attenzione e vi do appuntamento al prossimo episodio. Ciao!
Fonti per questo episodio:
“Veleni di Stato” di Gianluca Di Feo – Rizzoli
“Inferno su Bari. Bombe e contaminazione chimica. 1943-1945” di Vito Antonio Leuzzi – Edizioni Dal Sud
“2 Dicembre 1943. Inferno sulla città” documentario scritto da Fabio Toncelli con Francesco Morra disponibile su Rai play
Com’era studiare all’estero nel medioevo? Potrebbe sembrar strano, ma apparentemente gli studenti del tempo condividevano gli stessi problemi degli studenti moderni. Le università non erano per tutti e solo poche famiglie potevano permettersi di mandare i propri figli a studiare all’estero. Gli atenei più importanti attiravano studenti da tutta Europa. Nonostante la vita nelle università fosse particolarmente austera, non erano tenuti a rispettare le rigide regole della vita monastica. Questo significava che sì dovevano studiare, ma allo stesso tempo avevano anche modo di divertirsi (lontano dagli occhi dei genitori).
Le università svilupparono sin dall’inizio un complesso sistema postale per permettere agli studenti di inviare e ricevere lettere. Il primo caso documentato di servizio postale universitario è quello di Bologna del 1158. Altre università prestigiose come quella di Salamanca o di Parigi disponevano di corrieri che si occupavano di recapitare le lettere dei ragazzi impegnati nei corsi all’estero.
Sono proprio queste lettere a darci un’idea di come fosse davvero la loro vita. Nonostante le università sorgessero in città molto vivaci sul piano culturale e politico, riferimenti a questi due temi sono molto scarsi. Sembra piuttosto che i ragazzi avessero ben altro per la testa. Scrivevano per due motivi: fare impressione sui genitori dimostrando i loro progressi negli studi e soprattutto chiedere più soldi.
Le lettere erano scritte con uno stile formale e impostato, dettato anche dall’esigenza di dimostrare di saper padroneggiare la scrittura e le parole nell’ottica di una carriera da funzionario o impiegato. E chi era indietro negli studi e non sapeva scrivere? Nessun problema, già allora esistevano dei manuali con tanto di modelli da cui attingere per fare buona impressione sui genitori.
Tra queste lettere, leggiamo quella scritta da uno studente di Oxford nel 1220:
“Questa mia per informarvi che sto studiando a Oxford con la massima diligenza, ma la questione dei soldi si frappone seriamente ai miei progressi verso la promozione, giacché sono ormai due mesi che ho speso l’ultima delle monete che mi avevate mandato. La città è costosa e i bisogni sono tanti: devo pagare la pigione, acquistare i beni di prima necessità e rifornirmi di molte altre cose che ora non posso elencare in dettaglio. Imploro rispettosamente il vostro buon cuore paterno affinché mi assistiate ascoltando i suggerimenti della pietà divina, acciocché io possa essere in grado di portare a termine ciò che ho bene iniziato”.
Studiare all’estero, almeno secondo le parole di questo ragazzo, costava. Ecco l’implorazione ai genitori con tanto di riferimento alla “pietà divina” che non guastava mai. Chi avrebbe mai resistito alle parole del proprio figlio che muore di fame e chiede solo dei soldi per studiare?
Sempre dalle lettere del tempo scopriamo che in realtà i genitori non si facevano ingannare così facilmente. I ragazzi, allora come oggi, avevano bisogno sì di soldi, ma non sempre per studiare. Ecco cosa scriveva un esasperato genitore di Besançon al figlio, studente a Orléans:
“Ho recentemente scoperto che conduci una vita dissoluta e indolente, preferendo la licenziosità alla moderazione e il gioco allo studio, e che strimpelli una chitarra mentre gli altri si applicano ai loro studi, di conseguenza vengo informato che hai letto un solo volume di diritto laddove i tuoi compagni più industriosi ne hanno letti diversi. Ho deciso pertanto di esortarti a pentirti a fondo dei tuoi modi dissoluti e incuranti, sì che tu non possa più essere chiamato un perditempo e che la tua vergogna di oggi possa portare a una buona reputazione futura”.
È interessante notare come i genitori fossero al corrente di ciò che accadeva nel mondo universitario a prescindere dalle lettere dei propri figli. C’era un sistema postale che li informava in tempo reale, anche se considerando i tempi di consegna del tempo è un’espressione un po’ azzardata. Quello che colpisce è che in queste lettere anche gli studenti medioevali raccontano di come fosse stato difficoltoso il viaggio, della sistemazione che avevano trovato e perché no dei coinquilini, immancabilmente molto rispettabili.
L’olandese Emo di Frisia, che secondo gli storici fu il primo studente straniero a frequentare Oxford (nel 1191), aveva probabilmente molte cose in comune con gli studenti moderni.
Le lettere sono tratte dal libro edito da Einaudi “L’invenzione delle notizie: Come il mondo arrivò a conoscersi” di Andrew Pettegree e tradotto da Luigi Giacone.
Sito archeologico di Dura-Europos. Siria. 1930. Gli archeologi hanno appena rinvenuto in un tunnel scavato sotto le antiche mura della città, i resti di venti legionari romani. Insieme a loro, quelli di un nobile del tempo: spada dal manico in avorio, abiti e ornamenti preziosi. Si chiedono cosa ci facciano lì, ma soprattutto chi li abbia uccisi. La domanda con il passare degli anni cambia. Non più chi li ha uccisi, ma cosa. Gli studiosi, infatti, non sanno di trovarsi di fronte a quella che fu la prima guerra chimica della storia.
Benvenuti a tutti, sono Stefano Frau e questo è In cerca di Storie, il podcast che va alla ricerca di storie o personaggi dimenticati o poco conosciuti.
Negli ultimi mesi, a causa purtroppo del conflitto in Ucraina, abbiamo sentito spesso parlare di utilizzo di armi chimiche. Di cosa si tratta? Secondo l’OPAC, l’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche, “sono quegli strumenti bellici che causano danni o morte intenzionale attraverso agenti di carattere chimico”. Ce ne sono di diversi tipi. Quelli più comuni forse sono il gas nervino, il Sarin o quello che fu soprannominato “gas mostarda”, l’iprite, che fu utilizzato per la prima volta il 22 aprile 1915 nella città fiamminga di Ypres (da qui il nome) dalle truppe tedesche per sfondare le linee francesi.
Siamo abituati ad associare all’idea di arma chimica le immagini appunto di soldati, asini e cavalli della Grande Guerra equipaggiati con le maschere antigas. In realtà le armi chimiche non fanno parte solo della storia moderna. Fin dall’antichità il genere umano ha sempre cercato il modo più letale e rapido per sconfiggere il nemico. E la città siriana di Dura-Europos con i suoi 20 legionari e quel nobile, ne sono la prova.
Dura-Europos si trova nel deserto siriano non lontano dal fiume Eufrate e dal confine con l’Iraq. Fu fondata nel 303 a.C. dal sovrano macedone Seleuco I. In origine era un avamposto militare ma con il passare dei secoli si è trasformata in una città carovaniera divenendo una meta ambita dai diversi conquistatori.
Dura, per usare un’espressione moderna, era un melting pot di culture e religioni diverse. Romani, Greci, Semiti, per le sue strade potevi sentir parlar greco, latino, aramaico o persiano. Tra tutte le dominazioni, quella che ci interessa per la nostra storia è quella romana.
Prima sotto Traiano e poi sotto Lucio Vero, divenne parte della provincia siriana ed ebbe un ruolo strategico a causa della sua posizione geografica. Il limes orientale dell’impero era agitato dagli scontri tra romani e sasanidi. Quest’ultimi decisero di assediare la città nel 256 d.C. e vincerne la resistenza. Ma come?
Ed è qui che torniamo al team di archeologi che ho menzionato in apertura. In città era stanziata una legione che doveva appunto difenderla dagli assedi. I Persiani provano a sfondare le mura con scale e rampe ma incontrano una strenua e valorosa resistenza. Ecco allora il colpo di genio. Invece di passare in superficie, decidono di scavare un tunnel sotto le torri. Una tecnica non nuova e che si sarebbe diffusa nei secoli. La ritroviamo spesso utilizzata durante il medioevo per assediare i castelli.
In pratica gli assedianti scavano dei tunnel che arrivano fin sotto le mura della città. Qui ammassano paglia e pece per poi dar fuoco. L’incendio fa crollare le mura della città così da permettere ai soldati in superficie di entrare facilmente. È la cosiddetta ‘mina’. Gli assediati spesso rispondevano con la ‘contromina’. Altro non era che una galleria scavata contemporaneamente all’interno della città per intercettare gli assedianti e ucciderli o spegnere l’incendio.
Anche a Dura accade lo stesso. O quasi. Perché in realtà gli assedianti fanno qualcosa di nuovo che spiazza i legionari. All’interno del tunnel non portano materiali infiammabili bensì gas. In un braciere versano un composto formato da bitume e cristalli di zolfo, una specie di catrame, che bruciando rilascia un fumo tossico. I 20 legionari che sono sbucati nella galleria per scacciare il nemico sono spacciati. Non fanno in tempo a scappare che il gas li ha ormai uccisi. I ricercatori dell’Università di Leicester sono arrivati a questa conclusione analizzando i resti dei legionari. Non ci sono infatti segni di morte violenta, quelli tipici che ci aspetteremmo durante un assedio. In questo modo i persiani furono in grado di introdursi facilmente sotto le mura nemiche per poterle distruggere. Ora vi chiederete: ma il nobile che è stato ritrovato lì con loro?
Anche lui ebbe un ruolo decisivo. Lo potremmo definire un kamikaze ante litteram che decise di immolarsi per permettere ai suoi compagni di entrare in città. Sembra che fu proprio lui ad introdurre quel composto di bitume e zolfo nel tunnel.
È così che Dura-Europos cadde. I suoi abitanti furono molto probabilmente uccisi o fatti schiavi. La città, stranamente, non fu rasa al suolo ma soltanto abbandonata. È rimasta per secoli intatta, nascosta sotto la sabbia del deserto siriano fino a che un giorno, in modo rocambolesco, un soldato inglese impegnato a scavare una trincea durante la rivolta araba non fa una scoperta eccezionale. È il 30 marzo 1920 e quel soldato non crede ai suoi occhi. Un affresco dai colori vivaci strega i soldati e il capitano Murphy. Sanno di trovarsi di fronte a qualcosa di importante. Tra gli anni Venti e Trenta si sono susseguiti diversi scavi portati avanti da team inglesi, francesi e americani. Dura è conosciuta come la “Pompei del deserto siriano” per via dei suoi grandi tesori ancora intatti dopo secoli. Tra questi, lo scudo di un legionario romano che ancora oggi è l’unico esemplare di scutum semicilindrico giunto ai giorni nostri.
Ma davvero l’episodio di Dura è il più antico utilizzo di armi chimiche della storia? In realtà dalle fonti antiche sappiamo che l’uso di gas o sostanze irritanti e tossiche risale a ben prima dell’assedio dei persiani alla città siriana. Durante la guerra tra Sparta e Atene, tra il 431 e il 404 a.C., gli Spartani utilizzarono miscele di pece, carbone e zolfo per abbattere le resistenze delle città assediate. Ne abbiamo notizia da Tucidide nell’opera “La guerra del Peloponneso”. Durante gli assedi di Platea, Belium e Delio gli spartani utilizzarono queste miscele non solo per bruciare le fortezze nemiche ma anche per intossicare gli assediati. C’è poi la testimonianza di Quinto Curzio che racconta come durante l’assedio di Tiro del 332 a.C. ad opera di Alessandro Magno, i Tiri utilizzarono bitume e zolfo nonché lanciarono sabbia rovente e calce viva sui soldati macedoni. I romani erano soliti avvelenare i pozzi delle città assediate costringendo così gli assediati alla resa. Nell’opera “Vite parallele” di Plutarco si narra un episodio particolare. Il generale romano Sertorio nella campagna di Spagna non riesce ad avere la meglio sui Garacitani. Gli ispanici si nascondevano nelle grotte ed era impossibile stanarli. Ecco il colpo di genio del generale che spinge contro di essi “con l’aiuto del vento una densa nuvola ottenuta facendo galoppare la cavalleria sopra un grande strato di cenere e di polvere”. Una nuvola definita “tossica”. Dopo tre giorni i Garacitani, ormai intrappolati nelle grotte e prossimi all’asfissia, sono costretti ad uscire e ad arrendersi.
Quest’episodio mi ha ricordato molto quello avvenuto in Etiopia nel marzo del 1938. Allora a rifugiarsi nella caverna di Zeret erano stati gli etiopi che scappavano dai massacri perpetrati dalle truppe italiane. Donne, uomini, bambini, questa volta per stanarli si utilizza l’iprite, circa duecento litri, e cento proiettili da cannone con testate ad arsine, un gas questo infiammabile ed altamente tossico. Gli etiopi resistono eroicamente 48 ore per poi soccombere. Si stima che tra gli assediati siano morte tra le 1200 e le 1500 persone. Chi era scampato all’orrore del gas venne fucilato e gettato nei burroni.
Da Dura-Europos alla caverna di Zeret, fino ai giorni nostri, notiamo che semplicemente nulla è cambiato. La ferocia dell’uomo non si ferma dinanzi a nulla.
Si conclude qui l’episodio di quest’oggi. Se vi è piaciuta questa storia fatemelo sapere nei commenti. Come sempre sul sito http://www.incercadistorie.com trovate le trascrizioni e le fonti. Non dimenticatevi di seguirmi su YouTube e Instagram.
Vi ringrazio per l’attenzione e vi do appuntamento al prossimo episodio. Ciao!
Fonti per questo episodio:
“Fritz Haber e il primo attacco chimico della storia moderna” di Fred Langer – Focus
“Cosa sono le armi chimiche e che cosa hanno a che fare con la guerra in Ucraina” di Antonello Guerrera – la Repubblica
“A Melting Pot at the Intersection of Empires for Five Centuries” di John Noble Wilford – New York Times
“Why Chemical Warfare Is Ancient History” di Ishaan Tharoor – Time
“The History of Chemical Weapons Use Goes Back to the Ancient World. From poisoned arrows to deadly gases, chemicals have been deployed in warfare since Roman times” di Erin Blakemore – http://www.history.com
“Vita e prodigi a Dura Europos, la Pompei del deserto siriano” di Elisa Filomena Croce – BBC History
“Lo sfascio dell’impero. Gli italiani in Etiopia 1936-1941” di Matteo Dominioni – Editori Laterza
ANDREA BRAMBILLA, MARCO PISANI GUERRA CHIMICA E MASCHERE ANTIGAS DALLE ORIGINI ALLA PRIMA GUERRA MONDIALE Annali, Museo Storico Italiano della Guerra n. 28/2020